Estratto dal libro di Mauro Masi e Carlo Vulpio, "Un nemico alla Rai - 800 giorni "contro" nella tv pubblica", Marsilio
Mauro Masi
Chi, come più volte hai affermato, dall'interno della Rai ti ha fatto la guerra per tutti i ventisei mesi del tuo mandato?
MAURO MASI CARLO VULPIO - UN NEMICO ALLA RAI
Tutti quelli che fanno riferimento a un mondo politico minore, che «esiste» solo in quanto ha una sponda in Rai. Un mondo che però ha uno scarsissimo consenso politico nel paese. Costoro mi hanno fatto una guerra guerreggiata senza precedenti. Tutti i giorni. E poiché in genere si tratta di gente che, pur di vedere morto Berlusconi farebbe qualsiasi cosa, mi ha eletto a bersaglio privilegiato, in quanto direttore generale Rai nominato a ricoprire questa carica in un momento in cui Berlusconi, da un punto di vista mediatico, attraversava un periodo molto difficile.
Per quale motivo muovere guerra a te?
Perché la prima cosa che ho fatto quando sono arrivato in Rai è stata ribaltare il principio «quieta non movere», norma di condotta sacra ai dinosauri della Tv pubblica.
Mauro Masi
In concreto?
Ho osato smascherare questa gente, e sono stato il primo a farlo, mostrandola per quello che è: incardinata nelle proprie posizioni di privilegio e smaniosa di popolarità, soldi, potere. Insomma, stiamo parlando di gente come Fazio, Saviano, Santoro, Dandini, Floris, che l'ha messa sempre sul piano dei soldi «in nome» della libertà di espressione. Questi signori, resi più forti dal fatto che il Gruppo Editoriale L'Espresso li ha appoggiati, spalleggiati e persino «adottati», dalla Rai hanno sempre voluto, e ottenuto, un pacco di soldi. Aver detto questo, aver osato affermare che «il re è nudo», spogliato da ogni retorica fondata sull'«ideale» e smerciata come «impegno civile», ha scatenato l'inferno. È stato come mettere in discussione un dogma religioso.
MAURO MASI E FIGLIO
Una «guerra guerreggiata», hai detto. Cosa significa questa espressione, applicata al «palazzo» Rai?
Significa che si è giunti persino a fare in modo che un pezzo del consiglio di amministrazione della Rai sposasse in toto la linea del tanto peggio, tanto meglio, facendo continue dichiarazioni pubbliche che potevano far pensare che l'azienda, peraltro una società per azioni, andasse il peggio possibile. Oh, dico... ma ci rendiamo conto? Se lo facesse un politico, sarebbe grave ma potrei anche capirne la logica. Ma che lo facciano dei consiglieri di amministrazione - seppure, diciamo così, di minoranza - di una spa...
Veniamo al punto: esiste un «Partito Rai»?
MAURO MASI Certo che esiste. Anzi, forse ce n'è più di uno. Ed è un partito che può anche marciare diviso, ma che, quando si muove per difendere i propri privilegi, colpisce unito. Anche perché, e non lo scopro io, la Rai è oggettivamente vicina al mondo della politica.
Tutti «politicizzati» quelli che lavorano in Rai?
Intendiamoci. La Rai è fatta anche di gente che le vuol bene, persone che sono la «spina dorsale» dell'azienda: maestranze, tecnici, dirigenti, tutti quelli che, potremmo dire, «hanno fatto» e tutt'ora «fanno» la Rai. Poi c'è il Partito Rai...
ROBERTO SAVIANO E FABIO FAZIO IN _QUELLO CHE NON HO
Un partito vero e proprio?
Un partito che certamente non ha le sezioni e le cellule - non le hanno più da tempo nemmeno i partiti tradizionali -, ma che è un partito a tutti gli effetti, nel senso proprio del termine, formato da gente che nel tempo ha acquistato un grande potere in azienda. Anche questa, però, non è una novità, non è una cosa che scopro io. È sotto gli occhi di tutti, è stato così per decenni, e alla fine lo ha ammesso anche Bernabei.
Ti riferisci a ciò che Ettore Bernabei - democristiano, oltre che il più longevo direttore generale Rai, in carica dal 1961 al 1974 - ha detto a Giorgio Dell'Arti nel libro "L'uomo di fiducia" ?
Sì. In fondo, cos'ha detto Bernabei, se non che la Rai all'inizio era un feudo Dc, poi è diventata una proprietà Dc-Psi e infine un podere in cui è entrato anche il Pci? La «costruzione» di Rai 3 dal 1980 in poi rispondeva esattamente a questa esigenza, dare al Pci una sua rete e perfezionare il sistema della cosiddetta «lottizzazione ». Dopodiché, si è giunti alla massima condivisione consociativa del potere, al consociativismo all'ennesima potenza.
Santoro Dandini A PARLA CON ME
Però siamo ancora in quella che convenzionalmente chiamiamo Prima Repubblica. Da allora ne sono accadute di cose...
Ci stavo arrivando. Con il crollo della cosiddetta Prima Repubblica, i punti di riferimento tradizionali si sgretolano e «l'asse» Rai si sposta verso un'area politica di sinistra-centro. Al mutato equilibrio interno segue, con cronometrica puntualità, «l'assorbimento» da parte dell'azienda di una pletora di giornalisti: la cosa passa, di fatto, come una misura antidisoccupazione intellettuale, in realtà è una manovra strategica di politica clientelare, che all'interno della Rai produce un enorme consenso. Da quel momento, siamo agli inizi degli anni novanta, rispetto ai feudi tradizionali, in Rai comincia a formarsi un nuovo monopolio di sinistra-centro.
GIOVANNI FLORIS Ma non si dice sempre che i «vuoti» in politica non esistono e che, se ci sono, c'è sempre qualcuno che li occupa?
Infatti. Non sto mica sostenendo che questo processo sia avvenuto in maniera illegittima. Sto dicendo che ciò che trovo meno legittimo è che questa «nuova maggioranza» creatasi in azienda si sia trasformata in una «nuova egemonia», consolidata dal collante dell'antiberlusconismo a prescindere. Attenzione: non dal collante di uno spirito aziendale anti Mediaset, che potrebbe anche essere considerato un elemento positivo, espressione di una sana voglia di concorrenza, no, ma proprio da un collante ad personam, anzi contra personam, cioè anti Berlusconi.
Basta questo a spiegare la nuova egemonia in Rai?
ETTORE BERNABEI No. Non si capirebbe bene lo stato delle cose se non si considerasse anche un altro elemento molto importante, quel particolare meccanismo che con il tempo si è sviluppato in Rai e nella Tv in generale, vale a dire il ruolo delle star dell'informazione e dell'approfondimento giornalistico. Tutte le star dell'informazione Tv sono orientate a sinistra, eccetto Vespa. È un dato di fatto. Questo crea uno squilibrio evidente e questo squilibrio rende il «modello» dei programmi prodotti - che pure interessano molto la gente, anche perché siamo il paese degli eterni guelfi e ghibellini - più falso e più pretenzioso.
Però fanno audience.
E allora? Basta l'audience a giustificare programmi che ormai sono diventati il terreno privilegiato per influenzare direttamente e profondamente la politica? Floris e Santoro, per fare un esempio, si sono inventati dal nulla un Vendola come politico di livello nazionale. Mentre il programma di Vespa, per fare un altro esempio, è stato considerato addirittura «la terza Camera» del Parlamento.
Era dunque su queste cose che volevi incidere come dg ed è stato per queste cose che lo scontro si è trasformato in una guerra?
Paolo Ruffini
La mia vicenda in Rai è stata caratterizzata quotidianamente dallo scontro con questi Signori della Tv, che, come i Signori della guerra, si sentono speciali, più uguali degli altri, e non hanno mai voluto rispettare le regole. Quando mi sono azzardato a voler mettere in pratica il «rivoluzionario» principio che ci sono delle regole e che queste regole devono essere uguali per tutti, i Signori della guerra hanno puntato contro di me le loro armi.
Rivendicavano il pluralismo politico...
Tiravano in ballo il pluralismo politico - che non è stato mai messo in discussione - soltanto come pretesto, questa è la verità. Il loro obiettivo era occupare
MAURO MAZZA
Quindi tu ti presentavi davanti a un cda la cui maggioranza era, in realtà, a dir poco instabile, mentre la minoranza era la vera maggioranza?
Di fatto era così. La componente del «fortino», come l'ho definita prima, era molto più coesa, fino al «tutti per uno, uno per tutti». È stato grazie a questa coesione che, sebbene minoranza in cda, quella parte politica ha fatto sentire meglio la propria voce, ottenendo maggiori risultati.
Eppure, in virtù del tanto decantato spoil system, questi problemi non dovrebbero esserci...
Forse io stesso devo fare autocritica per non essere riuscito a portare il cda su posizioni unitarie. Per esempio, su alcune nomine importanti, come quelle dei canali digitali, che sono la Tv del futuro. O come l'interim lunghissimo a Rai 2, dopo l'uscita del direttore del Tg 2, Orfeo [ora al «Messaggero», n.d.r.], oppure la decisione sulla destinazione del direttore di Rai 3, Ruffini...
BIAGIO AGNES E SIGNORA
Quanto ha pesato in tutto questo la fuoriuscita di Gianfranco Fini dal Pdl?
Be', è evidente che quella «maggioranza» in cda di 5 a 4 è diventata più precaria. Il consigliere finiano è rimasto in maggioranza, ma tutto un mondo aziendale tradizionalmente vicino ad An, da quel momento in poi ha avuto sbandamenti e si è sentito in bilico. Per carità, è un travaglio politico che capisco e rispetto profondamente, ma che tuttavia ha avuto ricadute aziendali.
E i direttori delle tre reti, Mazza, Liofredi e Ruffini?
MASSIMO LIOFREDI
Non è un mistero che anche loro, all'occorrenza, remassero contro. Ruffini per ragioni ideologiche. Mazza e Liofredi più per motivi di governance, perché la Rai è una realtà molto complessa dal punto di vista di una governance efficace.
Mentre il «fortino» si dimostrava sempre compatto?
Più i problemi di questo tipo aumentavano, più il «fortino», attraverso la sua espressione paradigmatica, l'Usigrai, si dimostrava coeso e deciso a prendere tutto ciò che poteva prendere.
Vi siete incontrati, vi siete parlati?
BRUNO VESPA
Con l'Usigrai, il contratto aziendale, che era aperto da ben cinque anni, l'ho chiuso io. Un buon risultato, mi sembra, no? Ma poiché li avevo mostrati «nudi» e rifiutavo il consociativismo e la loro assurda pretesa di voler contare in tutti gli aspetti aziendali, anche quelli in cui non c'entravano affatto, per loro restavo il nemico pubblico numero uno. E così, invece di governare la fortezza Rai, mi toccava ingaggiare ogni giorno una battaglia per espugnare il «fortino», ero obbligato dai Signori della guerra a sostenere un conflitto falso.
Gianni Morandi presenta Sanremo 2011Come, falso? Non hai appena detto che si trattava di una guerra guerreggiata?
Sì, ma le ragioni di questa guerra erano false. Non era una guerra per la libertà di espressione, rappresentata dalle star dell'informazione, contro la censura, rappresentata da me, che sono un liberale e un democratico e mai ho concepito il ruolo di dg della Rai come censore. Lo sapevano e lo sanno bene anche loro che non era e non è così. Eppure hanno spinto la loro guerra fino al ridicolo, organizzando persino un referendum interno per la sfiducia nei miei confronti.
Un referendum sul dg, in Rai, mi pare non ci sia mai stato, vero?
Mai. Non ci sono precedenti. E tuttavia, pur non essendo previsto da nessuna parte e pur non avendo alcun valore giuridico, hanno tenuto un referendum il cui oggetto è stato la sfiducia a Masi. Affluenza? Bulgara. Risultato? Bulgaro.
ELISABETTA CANALIS Cioè?
Novanta per cento dei votanti contro di me.
Conseguenze?
Nessuna, ovviamente. La sfiducia non c'è mai stata perché il referendum era solo un gesto politico, privo di qualunque valenza aziendale e men che meno istituzionale. Ma per loro, ciò che contava era questo, il gesto politico.
Quanto ha pesato in tutto questo il fatto che tu provenissi da fuori, che fossi un «esterno» al mondo Rai?
Molto. Sono stato subito percepito come lo «straniero » arrivato a dettare un proprio ordine laddove nessuno aveva mai osato mettere nemmeno un dito.
BELEN RODRIGUEZ
E qual è stata la tua «colpa» più grave?
Aver voluto fare l'editore. Quando ho chiarito che ritenevo mio dovere occuparmi della linea editoriale e mettere ordine nella governance dell'azienda, caratterizzata da nebulose linee di demarcazione tra le competenze del dg e dei direttori di rete, di testata e così via, ecco, da quel momento è scattata l'azione contro di me. Un'azione non episodica, non a fasi alterne, ma organica e senza interruzioni.
Stai dicendo che hai condotto una lotta impari e che la parte debole eri tu, il dg della Rai? Sembra una «controstoria » rispetto alla versione comunemente divulgata. Pensi che ti crederanno?
So bene che sembra incredibile. Del resto, questo è il risultato di una rappresentazione dei fatti distorta, manipolata, rovesciata, che nel tempo ha prodotto i suoi frutti marci e ha saputo spacciarli per buoni. Ma ciò che sto dicendo è la verità ed è facilmente dimostrabile. Infatti, in questa guerra, in cui il bersaglio ero io, è venuto fuori in tutta la sua forza il consociativismo della Rai.
Sempre in ossequio al famoso quieta non movere?
MONICA SETTA
Naturalmente. La Rai si è dimostrata la patria del consociativismo, il luogo in cui la «flessibilità» della pratica consociativa riesce a trovare i suoi momenti più alti. Masi vuole davvero fare il direttore generale e decidere su questioni che nessun altro ha mai messo in discussione? Ma chi crede di essere? Questo è stato il ragionamento. D'altra parte, come potevano pensarla diversamente in un ambiente in cui nemmeno Bernabei e Biagio Agnes [democristiano, dg della Rai dal 1982 al 1990, n.d.r.], che pure sono stati i patriarchi del consociativismo, decidevano da soli?
I potentissimi Bernabei e Agnes non decidevano da soli?
Certo che non decidevano loro. Con tutto il rispetto per Agnes, che è morto, e per Bernabei che ha novant'anni, non si può mica raccontare che Gesù Cristo è morto di freddo! Non sceglievano e non decidevano un bel niente di veramente importante da soli.
Aver voluto fare l'editore ti ha creato guai, oltre che sul piano politico, anche su quello della governance?
Per forza. Lo ripeto, se arrivi in un posto in cui va bene tutto a tutti - a spese dei cittadini - e vuoi vederci chiaro, fare un po' d'ordine, stabilire poteri e limiti per ogni ruolo e in base alle competenze, ti sei messo nei guai. Tant'è vero che, quando da dg ho cercato di fare l'editore, spesso sono entrato in rotta di collisione con alcuni direttori di rete non per ragioni politiche, ma per questioni di governance.
Mi ricordo per esempio dello scontro con Mazza, direttore di Rai 1, sulle scelte per Sanremo 2011: lui ha voluto Morandi, Canalis e Belén, io volevo Vespa nell'inedita veste di presentatore ironico affiancato ogni sera da una donna diversa. Per le stesse ragioni entrai in polemica con Liofredi, direttore di Rai 2, che a condurre il programma Il fatto quotidiano aveva messo Monica Setta, che a me sta anche simpatica, ma il cui modo di fare Tv non mi piaceva per niente. Con Ruffini, direttore di Rai 3, le polemiche erano su entrambi i piani, politico e di governance, ed erano quotidiane.
MICHELE SANTORO
C'erano di mezzo fatti personali?
Con Ruffini c'è stata un'immediata antipatia reciproca. Ma non era questo il motivo dei nostri scontri. Con lui le cose sono andate sempre peggio, anche per la sua propensione a dare pubblicità immediata a qualunque fatto, critica, diversità di opinione, o incontro, anche riservato, che avevamo per ragioni di lavoro. Un comportamento che francamente trovavo insopportabile.
Potrà aver agito in questo modo per garantire trasparenza assoluta alla Rai?
Ma per favore. La strategia era sempre la stessa. Trasformare anche le più normali critiche aziendali in alti lai per la libertà di informazione in pericolo... Ruffini spifferava tutto ciò che era stato oggetto di discussione interna alle agenzie di stampa e poi una pattuglia di parlamentari peones della sua parte politica, che puntualmente lo spalleggiava in questa azione, faceva partire una raffica di decine di dichiarazioni contro di me. Il finale di questo copione, devo dire, era sempre uguale e sempre un po' ridicolo.
Come andava a finire?
C'era sempre, ogni volta, la dichiarazione finale del portavoce dell'IdV, Leoluca Orlando Cascio, come lo chiamava il mai troppo rimpianto presidente Cossiga. E se non parlava lui, dalla panchina si alzava a prenderne il posto Pancho Pardi, «due braccia sottratte all'agricoltura », come egli stesso dice sé nelle proprie note biografiche... Non c'era modo di vedere un finale diverso.
Sempre lo stesso schema?
saviano
Sempre. Un copione scritto in anticipo.
Qual è il modello di dg che andrebbe bene al Partito Rai?
Andrebbero bene tutti, secondo me, purché non si occupino della linea editoriale. Il Partito Rai accetterebbe - e ha effettivamente accettato - anche un dg eletto dal centrodestra, alla Agostino Saccà [dg Rai dal 2002 al 2003, n.d.r.] o alla Flavio Cattaneo [dg Rai dal 2003 al 2005, n.d.r.], molto orientati a intervenire sul business aziendale e molto meno sulla linea editoriale... Da questo punto di vista, io non li facevo dormire tranquilli, li tenevo in tensione continua. Ma non perché volessi «censurare». Questo è ciò che hanno detto loro, tutti quelli che non volevano mutare di un pollice lo stato di cose esistente.
E così hai deciso di andare in video a esporre le tue ragioni...
Una decisione che mi ha procurato ulteriori critiche e che tuttavia era l'unica cosa che potessi fare. Come ho già detto, in Rai non esiste una governance che consenta di affrontare questioni del genere, perciò sono stato praticamente costretto a comparire in video. Cosa dovevo fare, per esempio, quando Santoro e Saviano mi hanno attaccato in Tv sostenendo una falsità assoluta, e cioè che non volevo pagare come ospite il maestro Riccardo Muti perché il mio fine era quello di danneggiare i loro programmi? L'unica cosa che potevo fare, e che ho fatto, è stata «andare in Tv» a mia volta per dire la verità.
Ma così non hai fatto, ancora una volta, una grande pubblicità a chi volevi sbugiardare?
Sì, è vero. Involontariamente, in questo modo sono stato un grande promoter di questi personaggi e dei loro programmi. Al tempo stesso, però, molta gente ha capito chi sono davvero queste persone e come sappiano dissimulare bene - dietro la loro presunta battaglia per l'informazione e per il pluralismo - la loro ricerca di protagonismo, di spazi Tv e di soldi. Tanti soldi.