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LA SANTA SEDE RECLAMA UN CANALE TV E UNO RADIO A COPERTURA NAZIONALE: “CI SPETTANO PER CONTRATTO. CE LI DOVETE DARE”

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Aldo Fontanarosa per "la Repubblica"

DECADENZA BERLUSCONI IL BACIO DI PAOLO ROMANI ALLA BERNINI

LO STATO Vaticano, questa volta, non porge l'altra guancia, anzi. Si fa sentire, con severità e vistosa impazienza. E come dargli torto. Anni di attese, di preghiere inascoltate, di indifferenza farebbero perdere la pazienza anche a un santo.

D'ALTRA parte la predicazione elettronica, via radio e via televisione, è una priorità per la Chiesa che ora reclama dall'Italia - inadempiente - quello che le spetta, contratti alla mano. Un canale tv nazionale e un canale radiofonico, anch'esso nazionale e nella tecnologia ultramoderna del Dab. Beni che la nostra Repubblica si è impegnata a dare
e che non ha dato.

Questa storia nasce nel novembre del 2009 quando il Lazio, anche il Lazio, abbandona la vecchia tecnica di trasmissione dei canali tv (l'analogico) per abbracciare il digitale terrestre, con la sua promessa di migliorare la qualità del segnale (disattesa) e di moltiplicare le emittenti. Paolo Romani, ministro dello Sviluppo Economico con Berlusconi, si accorge che il digitale terrestre funziona a singhiozzo nella regione, dopo anni di anarchia e Far West dell'etere.

AAVAZ PER LE FREQUENZE TV FIRME A PASSERA

E subito va a caccia di frequenze di pregio, soprattutto a Roma e nella sua provincia. Molto presto, Romani bussa alla porta del Vaticano che ha diritto - in base al "piano regolatore" dei ripetitori e agli accordi internazionali di Ginevra - ad alcune frequenze, ad alcuni "binari" di trasmissione di una qualità eccellente. Romani chiede ufficialmente di appropriarsene.

Sono i canali 6 e 11 in Vhf, si legge nella documentazione ufficiale. E ancora: il 21 in Uhf (banda 4) e il 57 in Uhf (banda 5). Merce preziosa, anche se la Santa Sede può irradiare il segnale, in concreto, solo entro il perimetro dello Stato Vaticano, a Castel Gandolfo e nell'area di Santa Maria di Galeria (dove sono i suoi tralicci).

ANTENNE tv locali

Lo Stato Vaticano acconsente a cedere tutti questi canali. E ottiene un impegno, a compensazione del favore che fa all'Italia. Entro il Natale del 2012, dovrà ricevere «capacità trasmissiva » su scala nazionale per una sua televisione («ad una velocità di 4 megabyte al secondo »).

Significa che un operatore di rete (supponiamo la Rai) deve farsi carico di ospitare sui suoi tralicci («e senza oneri») questa emittente della Santa Sede. E non solo. Il Vaticano - entro il Natale del 2012 - avrà diritto a un canale radio «a copertura
nazionale» che si ascolterà sempre sulla stessa frequenza. Questo canale proporrà - si immagina - la versione extra lusso della Radio Vaticana, nella nuova tecnologia
digitale (il Dab).

antenne di Radio Vaticana a Cesano

La Santa Sede rispetta i patti. Rende i suoi 4 canali romani, ma non riceve mai il canale radiofonico e neanche l'ospitalità per la sua tv. A fine del 2012, il Vaticano fa una prima discreta sollecitazione (il governo, ora, è presieduto da Mario Monti). Quindi si fa sentire nuovamente quando premier diventa Enrico Letta. E ottiene un successo parziale: l'Italia giura che fornirà i canali non più tardi di Natale 2013 (dunque con un anno di ritardo rispetto agli impegni originari). Neanche a Natale 2013, però, avviene il miracolo delle frequenze...

L'8 aprile 2014, pochi giorni fa dunque, arriva al ministero dello Sviluppo Economico una nuova lettera - severa e documentata - a firma di Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, che torna a reclamare il canale radio e l'ospitalità tv (supportato da monsignor Dario Viganò, il raffinato massmediologo brasiliano che guida il Centro Televisivo Vaticano). Il dossier, intanto, è già salito di livello visto che il dicastero chiave della Santa Sede (la Segreteria di Stato) lo sta esaminando. Se non è un ultimatum all'Italia, poco ci manca...

antenne radio vaticana

La grana vaticana è solo una delle questioni incandescenti finite nelle mani del nuovo sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, che dovrà anche gestire l'asta delle frequenze (per fare un altro esempio). Risulta che Giacomelli abbia letto con scrupolo la lettera vaticana e studiato a fondo il tema, deciso a dare una risposta adeguata.

Piccolo dettaglio, però: il sottosegretario non ha ancora ricevuto da Palazzo Chigi la delega operativa che preciserà il perimetro delle sue competenze. Fino a quando non avrà la delega, il margine d'azione di Giacomelli sarà limitato. Con buona pace di chi reclama il giusto...

 


IN DUE MILIONI DI CASSETTE DI SICUREZZA IN BANCA, SI NASCONDO I MEJO SEGRETI DEGLI ITALIANI

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Mario Gerevini per il "Corriere della Sera"

«Finché morte non ci separi...». Poi però il coniuge scompare nel nulla e spunta una cassetta di sicurezza. Incidente? Suicidio? La sposa, con le lacrime appena asciugate, acquisisce il diritto ad aprirla. Uomo distratto: aveva dimenticato lettere e foto di una giovane sudamericana. Altro che suicidio: se l'era svignata in Brasile.

CASSETTE DI SICUREZZA

Storie e segreti racchiusi nel buio di quei cassetti blindati di cui la banca non conosce il contenuto; tracce e frammenti di piccoli o grandi ricchezze private, squarci di vita, privacy totale. Un mondo a sé ricco di episodi curiosi e aneddoti.

Erano a dir poco sospetti, per esempio, i due lingotti d'oro da un chilo ciascuno custoditi nella cassetta di una banca di Ferrara: titolare un funzionario dell'ente pubblico che gestisce il patrimonio immobiliare, indagato l'anno scorso per concussione. A Massa Carrara una mamma premurosa ha messo a disposizione del figlio spacciatore la sua piccola cassaforte bancaria: i carabinieri hanno confiscato 500 mila euro in contanti.

A Roma la Guardia di finanza poche settimane fa ha sequestrato in banca un piccolo tesoro in gioielli ad alcuni rom ufficialmente «indigenti» ma con la loro bella cassetta di sicurezza. Michelangelo Manini, mister Faac (cancelli automatici), morto nel marzo 2012, aveva chiuso a chiave in banca una copia del testamento olografo. Chissà la faccia dei parenti quando è stato aperto: «Lascio tutto alla Curia di Bologna». Cioè il 66% dell'azienda più beni mobili e immobili per un valore totale di un miliardo e mezzo di euro.

Talvolta succede che le cassette vengano abbandonate. Il titolare non si trova più o non vuol farsi trovare. Emigrato? Morto? Smemorato? Latitante? In galera? La materia è giuridicamente complicata. Tutto è possibile se si pensa, piccola divagazione, che pochi giorni fa il tribunale di Pistoia ha dichiarato la morte presunta di tale «Gaetano Procissi fu Stefano» di cui non si sa più nulla. Poi però nel decreto si legge che il buon Gaetano si era «coniugato con Maria Modesta Papini in Borgo a Buggiano il 7 febbraio 1880». Morale: se si fosse sposato a 18 anni oggi ne avrebbe 152. Sì, in effetti presumibilmente è defunto. Oppure è un fenomeno.

CASSETTE DI SICUREZZA

La materia «desaparecidos» si applica anche alle cassette bancarie. Tant'è che a Palermo, dal 17 marzo e per diversi giorni, un uomo in tuta con la fiamma ossidrica è entrato nel caveau di una grossa filiale dell'Unicredit in centro città, destinata alla chiusura, per «scassinare» 63 scomparti blindati insieme a un notaio. Nessuna rapina: il fabbro è pagato dalla banca così come il notaio Maurizio Citrolo che ha preso nota del contenuto davanti a testimoni redigendo un verbale dettagliato e riservato.

E chissà che cos'hanno trovato. Una volta questa era la sede siciliana della Banca di Roma e prima ancora del Banco di Sicilia. Sui mille titolari di cassette della filiale, in 63 non hanno risposto nonostante tutti i tentativi per rintracciarli, fino alla procedura per pubblici proclami. Dunque apertura forzata per poter trasferire il caveau nella nuova filiale.
Ma quante sono le cassette di sicurezza in totale? L'Abi fornisce cifre parziali su 132 banche con circa 12 mila sportelli: le cassette di sicurezza sono 1.444.631. Da sole, secondo rilevazioni dirette, Intesa Sanpaolo (630 mila), Unicredit (500 mila) e Mps (143 mila) si avvicinano a quella cifra, dunque il «mercato» dovrebbe essere complessivamente intorno ai 2 milioni di scomparti blindati. Però solo la metà sono locati.

Qualche volta sono un buon rifugio per il «nero». Si racconta di una rapina in una filiale di una grande banca in Veneto. I banditi non riuscirono ad aprire la cassaforte. Si dedicarono così alle 4 cassette ma tre erano sfitte. La banca diede la notizia all'unico sfortunato titolare svaligiato, un imprenditore, che accettò senza batter ciglio il rimborso assicurativo di 20 mila euro.

CASSETTE DI SICUREZZA

Si scoprirà poi che il «bottino» era stato di molte centinaia di migliaia di euro: il «nero» che l'imprenditore ovviamente non poteva dichiarare, né assicurare.
Nella gran parte dei casi, tuttavia, i loculi bancari in affitto (da circa 50 euro annui fino ai 2-3 mila per gli armadi corazzati) sono utilizzati per mettere al sicuro beni di famiglia. Per aprire serve la chiave generale della banca e quella personale del titolare. Ne aveva quattro il comandante Arkan alla Komercjialna Banka ma del suo tesoro, quando hanno aperto le cassette, non c'era più traccia.

Un direttore di una piccola banca di provincia racconta che gli è venuto un «colpo» quella volta che ha aperto lo sportello del cassetto blindato e si è trovato davanti «quattro pistole»; denuncia immediata alla magistratura. Un altro si è trovato a tu per tu con 4 chili di cocaina. All'Mps di Latina anche dei navigati militari delle Fiamme Gialle sono rimasti a bocca aperta sfilando dalla cassetta della moglie di un indagato (truffa da 187 milioni) tredici orologi preziosi con diamanti e zaffiri e 65 tra bracciali, anelli e collane di grande valore. Una minuscola caverna di Alì Babà.

 

ALLA FACCIA DEL RICAMBIO, NEL 2016 LA SFIDA PER LA CASA BIANCA POTREBBE ESSERE ANCORA TRA I CLINTON E I BUSH

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Valeria Robecco per "il Giornale"

JEB BUSH E HILLARY CLINTON

Clinton-Bush, il sequel: è questo lo scenario sempre più verosimile della lotta per la Casa Bianca alle elezioni presidenziali del 2016.
Un'eco di quanto accadde nel 1992, quando a sfidarsi furono Bill Clinton e George Bush padre e che oggi potrebbe vedere opposti Hillary Clinton e Jeb Bush.

L'ex governatore della Florida, il quale ha già visto alternarsi al 1600 di Pennsylvania Avenue il padre George H.W. e il fratello George W., pochi giorni fa dal Texas ha spiegato che deciderà entro la fine di quest'anno se candidarsi o meno, aprendo così la strada alla possibilità del terzo Bush alla Casa Bianca in meno di trent'anni. L'avversaria però non sarà una qualunque, ma molto probabilmente quella Hillary Clinton che tutti i sondaggi continuano a dare come la stra-favorita.

HILLARY CLINTON

L'ex Segretario di Stato Usa, ancor prima di decidere se scendere in campo, ha già chi scommette - e parecchio - su di lei, tanto che il Super Pac «Ready for Hillary» nel primo trimestre del 2014 ha raccolto 1,7 milioni di dollari.

Secondo alcuni osservatori, tuttavia, gli americani potrebbero essersi stancati dei clan della politica, ma soprattutto, i due potenziali candidati potrebbero non avere la necessaria energia per ispirare gli elettori.

Tra gli scettici c'è persino l'ex first lady Barbara Bush, che alla Casa Bianca ha già visto il marito e un figlio. Come ricorda il Times di Londra, lo scorso anno la madre di Jeb ha affermato pubblicamente che il Paese non ha bisogno di un altro Bush presidente, mentre più recentemente ha detto che sarebbe sciocco non riuscire a trovare più di due o tre grandi famiglie che corrano per la carica più alta d'America.

JEB BUSH E HILLARY CLINTON

D'altra parte, i veterani del Grand Old Party hanno realizzato che in un generale clima di vuoto politico, e con la mancanza di candidati con la necessaria levatura, Jeb Bush potrebbe essere la figura più autorevole. Oltre a essere l'unico ad avere un nome di peso come Hillary Clinton, la quale, nonostante la scarpa lanciatale contro da una donna nel corso di un discorso a Las Vegas, rimane il cavallo di punta del partito democratico.

Peraltro, anche se l'ex Segretario di Stato continua a ripetere di non aver preso una decisione sulla sua candidatura, secondo quanto rivelano fonti informate al Giornale, sarebbe impegnata nella capitale Washington in una vera maratona di raccolta fondi, partecipando anche a più eventi nella stessa serata.

HILLARY CLINTON

La discesa in campo di Bush, invece, dipenderà in primis dall'atteggiamento del suo partito, a cui lui chiede una svolta rispetto al recente passato, che ha portato a risultati elettorali disastrosi: basta estremismi, basta con i Tea Party, e via libera ad un partito più moderato. Per esempio, prendendo le difese degli immigrati illegali, i quali a suo parere «è vero, infrangono la legge. Ma il più delle volte il loro, più che un reato, è un atto d'amore verso le proprie famiglie».

JEB BUSH

Bush e Clinton sono i due grandi nomi che hanno dominato la scena politica americana - al netto di Obama - dagli anni Ottanta a oggi. Nel 1992, però, era Bush che veniva da un mandato considerato fallimentare, mentre Bill Clinton era l'astro nascente della politica. Allora c'era una grande voglia di un ribilanciamento verso sinistra dopo l'epoca della destra di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, c'era voglia di riforme e di una maggiore giustizia sociale.

Ora, invece, dopo otto anni di Barack Obama, gli americani potrebbero sentire la necessità di un cambiamento anche se, d'altra parte, pure i repubblicani hanno vissuto momenti difficili con la frangia ultra-conservatrice del partito. Per questo, secondo gli osservatori, nel 2016 la battaglia per la Casa Bianca si giocherà soprattutto al centro.

 

ALLA FACCIA DEI BIGOTTI, SEMPRE PIÙ ITALIANE VANNO A PROSTITUIRSI IN SVIZZERA

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1 - REGOLE, TASSE E SICUREZZA. IL POLITICO TICINESE: «COSÌ SI EVITA IL MERCATO NERO»
Gp.r. per il "Corriere della Sera"

PROSTITUTE DEL MOTEL CASTIONE

Abolizione (parziale) della legge Merlin e, di fatto, via libera alle case chiuse. È questo l'obiettivo della campagna referendaria promossa dalla Lega Nord. Al di là della scelta di lanciare il tema nel periodo elettorale, il percorso individuato non è soltanto quello dei banchetti per la raccolta delle firme dei cittadini, ma - soprattutto - quello istituzionale. La settimana scorsa, infatti, il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato (con un solo voto di margine) la proposta di referendum presentata dal gruppo del Carroccio.

Oltre alle storiche, aspre divergenze culturali sul tema della prostituzione, al Pirellone il dibattito politico è stato aspro e lacerante anche all'interno della stessa maggioranza di centrodestra. Gli alfaniani del Nuovo centrodestra, infatti, sono rimasti inamovibili nel dire no al referendum, e in aula il testo è passato per un soffio grazie al voto del Movimento 5 Stelle. Adesso, perché la richiesta di consultazione popolare sia valida, la Costituzione prevede che venga condivisa da almeno altri quattro Consigli regionali. E, puntuale, la Lega stessa ha già avviato lo stesso iter anche in Veneto, dove giovedì scorso la commissione Sanità ha dato il primo via libera.

MOTEL A CASTIONE TICINO

2 - IN SVIZZERA, DOVE PROSTITUIRSI È LEGALE QUELLE ITALIANE FRONTALIERE DEL SESSO
Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera"

Il parcheggio non è pieno. Sulle auto - tutte dignitose ma nessuna di grossa cilindrata - sistemate a lisca di pesce si riflette il sole di una calda mattina di primavera. Il silenzio anonimo di tutte le anonime zone industriali di provincia è rotto solamente dal rumore di una segheria che lavora, poco lontano. Un posto qualunque. Che però è in Svizzera.

PUTTANE F E

E così, da dietro il separé di plastica da stabilimento balneare a poco prezzo che nasconde i ballatoi della palazzina affacciata sul parcheggio, appare una ragazza. Dondola su tacchi altissimi e indossa un abitino blu che le sta un po' stretto. La testa è bassa: guarda il cellulare. Non può parlare, è di fretta: «Mi stanno aspettando in camera», si scusa. «Ma - aggiunge - al bar ci sono altre ragazze». Il bar è quello del Motel Castione e le ragazze sono tante, almeno trenta. Sono sedute al bancone o ai tavoli e quando si apre la porta, tutte si voltano a guardare.

In Svizzera la prostituzione è legale e anche locali come il Motel Castione lo sono. Lo ribadisce il titolare che però preferisce restare anonimo visto che la legge non basta a cancellare «i pregiudizi. Prima c'erano 33 ritrovi simili in Ticino ma sono stati quasi tutti chiusi», spiega. Questo perché non si può più mascherare una casa d'appuntamenti con un bar: «È cambiata la norma: siamo diventati "luogo di incontro per adulti".

Chi entra da noi paga l'ingresso e riceve in omaggio una consumazione». Dieci franchi, meno di dieci euro. Tra i clienti non notturni, soprattutto anziani. Parlano con le ragazze, sorridono. Ogni tanto qualcuno viene preso per mano da una di loro e si allontana lungo il corridoio che porta alle camere.

Per il gestore il guadagno, oltre agli ingressi (in media 200 giornalieri), è l'affitto delle stanze alle prostitute: «Al giorno sono 120 franchi. E forniamo ogni volta biancheria fresca». Le camere sono sì pulite ma sembrano quelle di un hotel a due stelle. «Per renderla più calda ho attaccato sul lampadario un velo rosso», racconta Gina. Ha 29 anni, ha iniziato a prostituirsi quando ne aveva 23 e viene dalla Romania.

prostitute pezzo ok

«Da noi gli stipendi sono di 200 euro al mese. Ho una bambina e credo sia giusto se mi sacrifico io perché non lo faccia mai lei». Il peso più grande è non averla cresciuta: «Ma quando penso che va a scuola ed è vestita bene e apre il frigo e lo trova pieno, allora so che sto facendo la cosa giusta».

Nella sua famiglia nessuno sa che lavoro faccia Gina. La sua idea, come di molte altre, è fare tanti soldi in pochi anni. In media una prostituta chiede 100 franchi per mezz'ora e ne guadagna attorno ai 5, 6 mila al mese. Gina si è comprata un appartamento. «Ci sono storie a lieto fine - racconta un cliente, 42 anni, svizzero che di professione fa il giornalista -. Questi posti vengono raccontati sempre sotto una cattiva luce ma qui ho conosciuto molte brave ragazze, che aiutano le famiglie. Mi spiace che così tanta gente le giudichi male».

prostitute boots

A Castione in effetti i clienti del bocciodromo (dopo il motel, il secondo locale più vivo di questo minuscolo centro) scuotono la testa: «Ma davvero c'è gente anche a quest'ora? Sono anziani? Ma anziani come noi?». Una coppia di marito e moglie classe 1929 ascolta attenta. Lei indignata. Lui sbuffa. Ma alla fine chiede sospettoso: «Ma anche della mia età? Io ho 85 anni eh». «La prostituzione in Svizzera è un'attività economica tutelata dalla Costituzione federale», scandisce Norman Gobbi, ministro ticinese con delega alla prostituzione.

«L'obiettivo è evitare la prostituzione di strada e la clandestinità. Chi vuole prostituirsi deve registrare la sua presenza sul territorio alla polizia, dopodiché ottiene un permesso di cinque anni. In Ticino al momento si stimano 600 prostitute». Ma non proprio tutte pagano le tasse. La maggior parte fa la spola con il Paese d'origine: lavora in Svizzera per un paio di mesi poi torna a casa, per rientrare di nuovo a distanza di qualche tempo. Una strategia semplice per evadere.

images prostitute ionline

Ulisse Albertalli, titolare del Bar Oceano - 70 camere vista autostrada - si definisce «un pioniere del settore». È orgoglioso delle battaglie fatte per ottenere «la licenza di bordello ufficiale. Le ragazze sono libere. Io offro le camere, i servizi alberghieri e la sicurezza (che garantisce però anche una sezione specifica della polizia)». Tutto per 165 franchi al giorno e due giorni di preavviso prima di liberare la camera: «Le ragazze girano per tutta la Svizzera e si fermano poche settimane. I clienti preferiscono il ricambio: spesso una moglie l'hanno già a casa».

Albertalli gestisce il locale con i figli «a testa alta. E molti dei ben pensanti contro cui mi sono scontrato in pubblico poi li ho ritrovati nel mio club». Vanessa ascolta seduta su un divanetto. Ha 30 anni, anche lei è romena e a Bucarest ha aperto un salone di bellezza con i soldi fatti qui. Da piccola voleva fare la sarta. È molto bella ma il trucco marcato la fa sembrare più grande. Eppure nella sua stanza ci sono decine di peluche tra cui un orsacchiotto gigante.

LAP DANCER

«Ai miei ho detto che lavoro nella hall di un hotel», confessa. Perché non lo fa davvero? «Così guadagno molto di più e molto più velocemente». Una formula che vale per tante. Sempre più italiane conferma Marco, titolare del sito incontriticino.ch . Il suo è un portale di annunci per chi esercita puntando sull'altra faccia del «modello svizzero»: la prostituzione da appartamento. «La percentuale delle italiane che si iscrivono sta salendo moltissimo negli ultimi tre anni. Prima si contavano sulle dita di una mano.

Ora ce ne sono almeno 25, diverse frontaliere. In Svizzera italiana è dove danno i permessi più facilmente e dove poi sono più bigotti. Al di là del Gottardo è l'opposto: ci sono quartieri a luci rosse ma non c'è il moralismo che esiste qui, dove chi lavora in casa spesso lo fa di nascosto per evitare guai con i condomini».

nights

Come fa anche una ragazza svizzera: «Nel mio appartamento faccio la massaggiatrice: decido io se proseguire con il rapporto o no». Non ama il suo lavoro, ma si sente tutelata. «Pago le tasse e sono in regola. Ma non lavorerei mai in un club: è vero che le ragazze possono scegliere con chi andare ma se devono pagare un fisso al giorno per me è comunque sfruttamento della prostituzione. Se non ci sono clienti sono costrette a svendersi».

La crisi non aiuta: «Le ragazze fanno sempre di più per sempre meno. E molte sono italiane». Come la giovane donna seduta sugli sgabelli del Pompeii, locale a pochi passi dal confine, a Chiasso, che conferma il teorema secondo cui più ti avvicini all'Italia e più si fa spessa l'aria di omertà. La ragazza è di Palermo ma si è trasferita vicino alla dogana e ha un permesso come frontaliera. Sta aspettando i primi clienti ma non ha voglia di parlare. Una cosa però le sfugge, mentre si sistema distratta la scollatura: questo mestiere in Italia? No, non lo farebbe mai.

squillo

 

prostitute PROSTITUTA PROSTITUTAPROSTITUTE SUL LETTO

ALCUNE TRANS OPERATE PER IL CAMBIO DI SESSO ACCUSANO I MEDICI DI LESIONI DOLOSE: “CI HANNO TRATTATE COME CAVIE”

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Giuseppe Scarpa per "la Repubblica"

Quattro interventi per cambiar sesso falliti. Nessun consenso informato presentato alle pazienti relativo al carattere sperimentale di quel tipo di operazione. E infine la pubblicazione, lo scorso gennaio, su una rivista scientifica degli stessi interventi, presentati con enfasi «come una nuova tecnica operatoria».

LA TRANS PELOPONY

Questo in sintesi il contenuto della denuncia a cui ha fatto seguito l'indagine della procura di Roma che ipotizza il reato delle lesioni personali dolose. Si sono sentite prese in giro le quattro trans che per loro stessa ammissione si trovano, ad oggi, in «una sorta di limbo» poiché non hanno più un organo sessuale definito. Quattro trans che si erano sottoposte all'intervento, da uomo a donna tra il 2011 e il 2013, al policlinico Umberto I.

Adesso anche la magistratura vuole andare fino in fondo. Per questo il procuratore aggiunto Leonardo Frisani e il sostituto Maria Gabriella Fazi indagano per lesioni personali dolose, ad oggi contro ignoti. Un reato non comune da accostare all'operato dei camici
bianchi. Se si considera che nella stragrande maggioranza dei casi l'ipotesi della lesione in capo ai medici è di solito colposa, per negligenza o superficialità.

Il motivo risiederebbe, stando alla denuncia «nell'omessa informazione alle pazienti del carattere sperimentale delle tecniche operatorie praticate - spiegano i legali delle trans, gli avvocati Giorgio De Arcangelis, Alessandro Gracis e Gaetano Grieco - E proprio questa circostanza integrerebbe il carattere doloso delle lesioni riportate dopo l'operazione chirurgica ».

Cristini Couto, brasiliana miss Trans 2007

«Non sapevamo di essere cavie» hanno argomentato i pazienti nel presentare la querela lo scorso febbraio. Non sapevano infatti, ritengono le trans, di essere state tra le prime
a doversi sottoporre ad una nuova tecnica sperimentale «che prevede per ricostruire la neovagina - si legge nella querela - l'utilizzo del tessuto dalla bocca».

Ma l'intervento che si rivelerà fallimentare. Operazione in cui «nessuno dei pazienti - emerge dalla denuncia - era stato informato di far parte di un progetto sperimentale, con tutti i rischi conseguenti».

A conferma del carattere sperimentale, emerge in denuncia, vi è «la pubblicazione di un articolo sulla rivista Plastic and Reconstructive Surgery del gennaio 2014. Dove gli stessi medici dell'equipe dell'Umberto I, che hanno operato le pazienti, scrivono del carattere sperimentale della tecnica operatoria praticata ».

 

LA TRANS EFE BAL

ANTONELLO FALQUI: “MIKE BONGIORNO ERA BRAVO MA ARIDO CON LE DONNE. RASCEL ERA PERFIDO"

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Malcom Pagani per il "Fatto quotidiano"

ANTONELLO FALQUI

I coltelli d'avorio sono chiusi nella teca: "Una mania di mio padre che li collezionava" perché le armi sono una tentazione: "Non bisognerebbe mai custodirle in casa" e rimandano sempre un sinistro riflesso: "Il regista Enzo Trapani, un caro amico, teneva in bella vista sulla parete le sue pistole. Un giorno più triste di altri ne prese una e si sparò".

A 88 anni, le memorie di chi inventò i varietà televisivi più moderni del ‘900 italiano sfumano in controluce. Dietro tende, libri e velluti, oltre un portone solido come la stretta di mano che concede indifferente al bastone, Antonello Falqui ha smesso di fare i conti con l'età: "Invecchiare disturba, ma avendo iniziato a riflettere sul senso della fine già un quarto di secolo fa, non mi farò sorprendere. Quando lavoravo non lasciavo molto spazio all'esitazione. Allora ero giovane, deciso e con le idee molto chiare. Oggi molto meno. Non mi ricordo i cognomi, i dubbi sono aumentati e i confini tra il bene e il male restano confusissimi".

ANTONELLO FALQUI

Seduto su una poltrona, con le Muratti sul tavolo: "Ne fumo 15 pacchetti alla settimana" e una consapevole, impressionante somiglianza con Aldo Grasso: "Me l'hanno detto, non hanno torto", Falqui ritrova le costellazioni del suo passato solo a tarda notte. Quando: "La robaccia che propongono in tv evapora" e alle ore più improbabili, nel silenzio, sugli schermi clandestini dei canali tematici passano buchi neri e asteroidi, meteore, stelle e frammenti di Canzonissima, Studio Uno e Milleluci: "Le trasmettono di nascosto, alle 3 di mattina e li capisco.

Era un'altra tv. Un'altra civiltà. Un'altra cultura. Non vogliono avere raffronti". Pausa: "Altrimenti la gente penserebbe ‘ma si sono rincoglioniti?'". Pianeti lontani, figli di una Rai in cui lavoravano Flaiano e La Capria: "Come i suoi coetanei, Dudù venne via da Napoli perché lì non si può fare niente. La città è magnifica, ma in sincerità, che si combina a Napoli? A sud amano esagerare. Mettono al mondo 10 figli, poi la vettovaglia scarseggia e alla fine si trovano male. La filosofia è generosa, non troppo meditata".

ANTONELLO FALQUI

A Roma: "Peggiorata, imbarbarita, ancora bellissima", in una famiglia "con qualche ristrettezza economica", da unico erede di sua madre "Alberta, casalinga e di Enrico, critico letterario" Falqui ha sempre abitato. "Se si esclude un lampo milanese all'inizio dei '50, non l'ho mai lasciata. Con i miei abitavo in Via Giulia, di fronte a Ponte Sisto. All'inizio di quei portici, vivevano Carlo e Mario Verdone, mio insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia. Era un uomo sapiente e buonissimo, promuoveva tutti".

Promosse anche lei.
Iniziai nel cinema. Aiuto regista di Curzio Malaparte e poi di Anton Giulio Majano nel primo orrendo film da attore di Mastroianni. Marcello era meraviglioso. Simpatico. Nelle pause ci raccontavamo l'infanzia.

BEPPE GRILLO E MIKE BONGIORNO

Come arrivò in televisione?
Sandro Pugliese, il direttore dei programmi della Rai di allora, era molto amico di mio padre. Si lamentava: "Ho solo verbosa gente di teatro qui. Teorici e parolai. Non c'è nessuno che curi l'immagine". Non me lo feci ripetere e corsi a Milano per sperimentare. Firmai da regista la prima trasmissione in assoluto della tv di Stato. Si intitolava "Arrivi e partenze". L'esordio di Bongiorno. Mike intervistava personaggi celebri in partenza.

Era il gennaio del 1954.
Bongiorno nel mestiere era bravo, ma un po' arido con le donne. Non le trattava bene. Stava con un'attrice, Flora Lillo. Andavamo a sciare al Sestriere. Lui partiva per conto suo e la abbandonava nella baita, tristissima.

nureyev rudolf01

Che televisione era quella dell'epoca?
Non volevo alfabetizzare il Paese come il maestro Manzi, ma solo intrattenerlo con grazia ed eleganza. Così provai a trasformare la tv e spostai in quel contenitore il teatro di rivista, già declinante all'inizio degli anni '50. L'avanspettacolo lo conoscevo bene. Facevo sega a scuola per andare a vedere Rascel al Bernini. Era fantastico. Evadeva dalla classica corrente del comico. Accostava arditamente, osava, rischiava. Poi certo, come tutti i bassi e i brutti, era cattivo.

I bassi e i brutti sono cattivi?
Non è determinismo, è la verità. Prenda Brunetta, non è forse cattivissimo? Rascel, cresciuto nei teatrini felliniani, sui palchi della Barafonda in cui il pubblico era indisciplinato e se non gradiva il numero ti tirava addosso un gatto morto, era proprio perfido. Quando sbagliava, dava la colpa agli altri. Una volta con Garinei e Giovannini dimenticò la parte e invece di scusarsi se la prese con l'uomo che azionava le luci: "O lui o me" gridava.

Mina in costume

A lei capitava di litigare?
Raramente. Con Nureyev però, faccia a faccia, venimmo quasi alle mani. Era leggiadro, ma aveva un culo molto grosso e detestava essere ripreso da dietro. Gli spiegai che seguire un ballerino che volteggia senza immortalare le terga era impossibile, ma quando si rivide, perse la testa, si incazzò e gettò un cappuccino caldo sul monitor. I cameraman commentarono ad alta voce: "Anvedi questo". Poi si avvicinarono truci. Lo volevano ammazzare. Io anche.

Lei aveva fama di decisionista.
Ero duretto, ma sapevo farmi voler bene. Ai miei tempi l'autore non entrava in studio. Che mettesse becco sulla scaletta poi, era impensabile. Mi occupavo di tutto. Scene, costumi, testi. Quando guardo la tv di oggi mi incazzo. Gli autori sono patetici. I registi non sanno neanche da dove si cominci. Fanno solo stacchi, per lo più sbagliati.

Mina e Lucio BAttisti

Lei con Mina non si sbagliò.
La conobbi per la prima volta nel Musichiere condotto da Riva. Un capitolo era dedicato agli urlatori. Lei e Celentano uscivano dalle ombre di un Juke-Box. Capii che c'era un talento insuperabile, una strada fantastica da percorrere insieme. Nessuno è stato o sarà mai più come lei.

Fu difficile incanalare il lampo?
La rassicuravo. Mina odiava il pubblico e la routine. Quando andava alla Bussola doveva passare attraverso un corridoio. Ai lati, due file gonfie di assalitori che la toccavano e allungavano le mani. In realtà odiava anche Roma. Sosteneva che i romani fossero villani e un po' aveva anche ragione. I paparazzi prendevano i numeri di targa, ci seguivano, rompevano le palle. All'epoca della nostra storia d'amore ci costrinsero a emigrare.

RAFFAELLA CARRA

Mina non amava l'a e re o.
In viaggio eravamo felici. Se ne fregava. Andammo in Jamaica. Da New York a Montego Bay. Poi, sbarcando da un volo minuscolo, atterrammo sulla punta estrema dell'isola. Al Frenchman's Hotel credevamo di essere soli. Ci fecero firmare il registro degli ospiti. Leggemmo il nome di 10 conoscenti. Eravamo affranti: "Non si può stare in pace neanche qui".

Ha amato molto in vita sua?
Ero un infedele, un convinto libertino, mia moglie ne ha passate di tutti i colori. Noi libertini ci riconoscevamo alla prima occhiata, eravamo quasi una setta, con i De Sica ci capivamo al volo. Il lavoro non mi aiutava a dimostrarmi retto. Si creavano situazioni imbarazzanti. Ai 2.000 metri del rifugio di Passo Pordoi, in una baita che è la metà della stanza in cui conversiamo adesso, io e Letizia Della Rovere, fedifraghi, pensavamo di essere al riparo. Entrammo e ci sorprese Pino Calvi, il maestro di musica: "Signori qual buon vento vi porta fino a qui?".

Anche Mina è stata un tuono. Finita la tempesta già non c'era più.
Ritirarsi a 35 anni, sulla soglia della maturità, al comparire della prima ruga per conservarsi bella fino all'ultimo istante, mi è sempre sembrato un peccato di vanità. Lo hanno fatto solo lei e Greta Garbo. Non ci sentiamo da 25 anni, siamo due timidi e forse non sapremmo neanche cosa dirci. Ma è meglio così. È bellissimo proteggere il ricordo delle persone amate. Riscoprirlo immutato. Mai avuto una discussione con lei. Uno screzio. Si fidava. Si faceva servire.

vittorio de sica

Si favoleggiò sulla sua rivalità con Raffaella Carrà.
Menzogne. Erano amiche. Mina metteva a proprio agio chiunque. La Carrà comunque è la donna più determinata che abbia mai visto. Una combattente mostruosa. In Milleluci, Mina era una diva senza pari, ma Raffaella riusciva ad avere lo stesso gradimento. Provava fino all'alba, era animata dal fuoco sacro. Alla prova dei fatti, non sbagliava una virgola.

Prima di Milleluci, ci fu Studio Uno, eredità di una trasvolata americana.
Mi nutrii del know-how americano, ma loro ricambiarono le attenzioni. Studio Uno era settimanale. A New York erano stupiti. Per fare una cosa del genere impiegavano un anno. Intuii che per creare straniamento bisognava rinunciare alle scenografie, immaginare uno studio vuoto in cui il fondale combaciasse con il movimento, esprimersi in un altro modo disegnando un'oasi di bianco che con gli attori vestiti di nero producesse un contrasto. Mettere luci e microfoni in scena. Con Garinei e Giovannini discutemmo. Venivano dalla rivista, dal Rugantino, da un'accozzaglia di scene, dai colori forti. Si guardavano intorno e non capivano: "Ma è vuoto".

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Fatica e costi esorbitanti?
Balle. Le leggende fanno il loro corso, ma non hanno senso. Allo spettacolo lavoravamo 6 giorni alla settimana. La domenica era libera e le spese erano poco più alte della media. La differenza era nella qualità. Quando Mina canta la sigla della rubrica "È l'uomo per me" sull'aria della sua canzone, tra i pretendenti ci sono Mastroianni, Cervi e Gassman. Una cosa seria.

Vittorio_Gassman

Con Gassman eravate in buoni rapporti?
Dopo Randone, era il più grande attore italiano di sempre. Aveva avuto 5 mogli, denaro, plauso critico e successo, ma era afflitto da preoccupazioni minime: "Non sono più come una volta, sto perdendo la memoria e decade anche il fisico". La chiamava depressione, ma io non riuscivo a spiegarmela con razionalità. Una sera per convincerlo che si trattava di sciocchezze tenemmo aperto un ristorante fino alle 5: "Tutti possono essere depressi tranne te" arringavo. "Sei alto, bello, intelligente. Andiamo, Vittorio mio, tu dalla vita hai ricevuto tutti i doni".

Ettore Bernabei

Le molte mogli erano anche il sintomo di un'inquietudine profonda?
Vittorio, almeno in parte, somigliava a Bruno Cortona, il suo personaggio del Sorpasso. Era duro e istintivo, ma buono. Mai come Chiari. Un pezzo di pane morto senza una lira perché i soldi preferiva darli agli altri. Non aveva alcun senso del denaro, Walter. Era un prìncipe. Una persona che sapeva conquistare Ava Gardner e rialzarsi dopo una caduta. Quando venne coinvolto in un'infondata storia di cocaina con Lelio Luttazzi, ne uscì benissimo. A Lelio, per dire, quella vicenda rovinò completamente l'esistenza. Non lo aiutò nessuno. Una vergogna.

Censure dell'età democristiana?
Neanche mezza. Ettore Bernabei, il più grande dirigente della tv pubblica di sempre, probabilmente l'unico, era un vero signore. Parco, sobrio, discreto. Mai una parola su calze a rete, gemelle Kessler, ospiti o sketch. E sì che Bernabei era un democristiano sfegatato.

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Lei lavorò anche per Filiberto Guala, amministratore delegato della Rai del ‘54. L'uomo che si presentò con un limpido piano: "Chi sono io? Un moderno crociato chiamato a lottare per il sepolcro della pubblica coscienza e venuto a cacciare pederasti e comunisti".
Uno che a differenza di Bernabei mi i rompeva i coglioni su tutto. Dal Can-can alle luci peccaminose. Si è fatto frate, si immagini la testa che doveva avere. Mi divertivo con altre persone. Con Marchesi, Villaggio, Dino Risi e Fellini, giocavamo sempre al varietà della vita. Ce la godevamo. Quando veniva a trovarmi Federico erano subito mangiate surreali. Lui era sublime. Bugiardo come la peste. Glielo dice anche la Magnani in Roma: "A Federì, va a dormì". Lui le chiede se può farle una domanda e lei rapida: "No, nun me fido".

FELLINI h fn

Fellini era amico di Andreotti. Lei si è mai interessato di politica?
Molto più oggi di ieri. Sono sempre stato socialista, mai votato Pci. Renzi mi sembra volenteroso, ma non so se potrà mantenere quel che ha promesso. Ha molti ostacoli. Grillo era meglio come attore. La politica della distruzione non mi affascina. Lei scrive per il Fatto?

Sì.
Per caso è comunista? Glielo chiedo per curiosità. Il mio rinnovato interesse per la politica prende il via dagli anni '90, dall'avvento di Berlusconi. Il suo arrivo ha radicalizzato i piani. In politica e in tv. Quarant'anni fa, la tv viaggiava in prima classe . Ora è diventata triviale. Berlusconi, con quella Mediaset lì, ha involgarito tutto.

L'ha mai conosciuto?
Per portarmi a Milano mi tenne a colloquio per 3 giorni in un palazzo a due passi dalla Rai. Entravo di nascosto e lo trovavo, preparatissimo, dall'altra parte del tavolo. Aveva studiato programmi, testi e persino inquadrature. Voleva gli spiegassi la tv.

Che impressione le fece?
Era un fenomeno nell'eloquio e aveva certamente un estro non comune. A parlare non lo fregava nessuno e d'altronde, se non avesse avuto talento non sarebbe mai arrivato a fare le puttanate che ha fatto. Detto questo, non avevo nessuna voglia di finire sotto padroncino perché la Rai ha molti difetti, ma almeno il padroncino non ce l'ha. Ha i Cda emanati dalla politica che sono un male, ma un male minore. Così rifiutai un miliardo di lire all'anno per tre stagioni. Era l'83. Berlusconi, incredulo, mi invitò a riflettere: "Porti l'assegno in bianco in Rai e veda cosa le dicono".

ANTONIO RICCI

Lei lo portò?
Sissignore. Andai da Emanuele Milano, il direttore di Rai1 e lui sbiancò. Si mise le mani nei capelli. Balbettò: "No, aspetta, ora vediamo, adesso risolviamo, ti prometto che cambiamo il contratto". In effetti lo migliorarono, senza però sfiorare neanche lontanamente le cifre di Berlusconi. Nella sua tv c'è un paradosso. Nasce a Milano, nella culla della moda, ed è provinciale. Nel '60 in tv andava Gazzelloni. Oggi vanno le Veline.

LELIO LUTTAZZI E WALTER CHIARI

Guardi che Antonio Ricci si arrabbia.
Mi dispiace, ma la sua tv è dozzinale e volgare. Non mi piace. Come, esclusa forse Non è la Rai, che almeno aveva l'idea delle ragazzine, non mi piace neanche la tv di Boncompagni. Non si può elevare il nulla a massimo sistema. Il nulla è solo il nulla. È vuoto.

Potrebbero ribattere che la sua è una visione filtrata dagli anni. Una visione che confligge con gli ascolti.
E io risponderei che non c'è prova che alla gente piaccia veramente quella robaccia come giurano i santoni di una certa dialettica molto in voga. Dicono: "Il pubblico vuole questo", ma è una bugia. Solo un espediente per scusarsi e giustificarsi. Il pubblico vuole altro. Basta darglielo. Ma il pubblico va anche allevato, quasi educato. Se gli dai l'immondizia si avvilisce. Si abbrutisce.

Perché ha smesso di lavorare per la tv relativamente presto?
Non c'erano più i miei dirigenti e non c'era più la mia Rai. Quella in cui per varcare il profilo del Cavallo si veniva sottoposti a un esame difficilissimo ed era richiesto il sapere. Oggi dominano incompetenza, cooptazioni politiche e raccomandati. Purtroppo si vede. Ed è un peccato. Sa cosa è stata la tv per gli italiani?

BARBARA D URSO CON FIORELLO E BALDINI

Cosa è stata?
Una manna. Un aiuto dal cielo. Li ha resi svelti, gli ha insegnato a leggere e a scrivere, gli ha aperto le teste. Ora gliele sta richiudendo.

Se le chiedessero aiuto per una nuova tv?
Li lascerei nel loro brodo. Non esistono più le categorie, è saltato tutto e io non sono un presenzialista come Freccero. Metto l'idea per farmela massacrare? No, l'idea non la metto. Lei mi chiede come si può pensare a una nuova forma televisiva, ma forse dovrebbe chiedersi prima con quali figure potrebbe nascere. Rifare la tv di ieri nel 2014 sarebbe impossibile. L'unico con cui, se gravemente minacciato, potrei pensare di collaborare è Fiorello.

Lo apprezza?
È il solo che si avvicini al nostro modello. A Walter Chiari. In più sa anche cantare. Purtroppo gli dipingono attorno durate eccessive. Il varietà dovrebbe durare un'ora, al massimo 75 minuti. Oltre si sbrodola. Si annoia e ci si annoia. In un'ora ci sono 40 idee. Ma in due ore e mezza, può star tranquillo, non ce ne saranno mai cento.

E di Fabio Fazio? Per qualcuno è il nuovo Baudo. Lei all'esame bocciò il presentatore.
Fazio non mi dispiace, quel che fa lo fa discretamente. Baudo racconta sempre l'episodio della sua bocciatura con la pretesa di ironizzare. Dice: "La lungimiranza di Falqui, figuratevi, mi respinse". Rivendico la scelta. Lo bocciai perché non bisogna pensare al Baudo di oggi. Parlava siciliano stretto, era cafone e volgare, nulla a che vedere con quello di oggi.

Pippo Baudo intervistato

I rapporti tra voi?
Con Baudo non ho mai lavorato. Lui non si capacitava: "Hai lavorato con tutti e non con me" e io, calmissimo, senza emozione: "Perché io e te non abbiamo nulla da dirci".

Se pensa a domani?
Ci penso con la serenità di chi ha condotto un'esistenza felice. Cammino poco e presto compirò 90 anni. Ma ho fatto il lavoro che sognavo e ho tenuto più di 20 milioni di italiani di fronte a una tv che mi permette di guardarmi ancora in faccia. Poi vado ancora al cinema. Ho visto il film di Sorrentino. Bellissime immagini per carità, ma non le è sembrato un po' astruso?

 

CHISSÀ SE DELL’UTRI VORRÀ RACCONTARE AI MAGISTRATI DELLA MILANO ANNI ’70 E DEGLI INCONTRI COI BOSS

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Attilio Bolzoni per "la Repubblica"

SE UN giorno dovesse ricordarsi - e finalmente parlare - della Milano degli anni ‘70 e di quei «signori» impomatati che venivano da Palermo, quanti segreti potrebbe raccontare? Lui, che è stato il custode dell'avventura del Cavaliere fin dagli inizi?
MENTRE organizzava incontri con i boss, lui che ha partecipato alla nascita di Forza Italia, quanti dettagli inconfessabili nasconde ancora nei suoi armadi?

DELLUTRI, BERLUSCONI

La storia della mafia e dei suoi territori contigui è ricca di tradimenti e risentimenti, doppiezze, infedeltà, interessi. Perché dovrebbe fare mai eccezione proprio don Marcello Dell'Utri, ex impiegato di banca in una cassa rurale di Belmonte Mezzagno (provincia di Palermo, abitanti 11.244, altitudine 356 metri) e vent'anni dopo uno degli uomini più potenti d'Italia al fianco di un milanese che per tre volte sarebbe diventato Presidente del Consiglio?

Forse basta ricordare come - solo un anno e qualche mese fa - parlava Dell'Utri. Erano i giorni in cui bisognava decidere le candidature per le elezioni politiche del febbraio 2013, il "problema" era Marcello già condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno.
Dichiarazione di Berlusconi: «Temo che gli chiederemo un grande sacrificio perché una sua candidatura porterebbe critiche, nonostante le sue straordinarie qualità morali».

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Risposta di Marcello: «Dico solo che basta ricordarsi dove sto io, dove sono sempre stato...Continuerò a candidarmi, non lo farò più solo da morto... ». Seconda dichiarazione di Berlusconi: «Vedremo».

Seconda risposta di Marcello: «Io non sono un amico acquisito nella stagione politica, sono un amico di vecchia data... la mia storia è la stessa di Berlusconi. Se Berlusconi mi vuole escludere l'unico modo è di rinnegare il mio passato». E poi: «Forse Silvio di soldi me ne deve ancora...». Tutto chiaro? Gli aveva mandato a dire con il suo stile: stai attento, un onorevole muto è molto più ragionevole di un imputato che rischia la galera, se finisco male io finisci male anche tu.

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Il collegio blindato - nel 2013 - Dell'Utri non l'ha avuto e, qualche giorno fa, è stato costretto a fare rotta verso Beirut alla vigilia di una sentenza. E ora cerchiamo di elencare quali segreti custodiscono uno dell'altro, in quali pieghe della vicenda italiana si nascondono antichi patti tra i due, quali personaggi (assassini, trafficanti, mandanti di delitti eccellenti) hanno incrociato l'(ex) Cavaliere all'inizio della sua spericolata scalata.

Sono 25 gli anni della «vicinanza» di Marcello Dell'Utri con la mafia. Prima con l'aristocrazia criminale palermitana, poi con i Corleonesi di Totò Riina. E dietro, dietro c'è sempre l'ombra di Berlusconi. I nomi: si comincia con Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino », con Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. A quel tempo Marcello è segretario particolare di Silvio. È il 1970. Solo frequentazioni pericolose. Poi, il salto. Con certezza è nel 1974. Arriva ad Arcore Vittorio Mangano, uomo d'onore della famiglia di Porta Nuova che fissa la sua dimora fino all'ottobre del 1976 in via San Martino 42. È in quel momento che il legame fra i palermitani del boss Stefano Bontate e la coppia siculo-milanese diventa più strutturato.

Silvio Berlusconi con Marcello DellUtri Foto di Alberto Roveri

In quei mesi tutto si fa alla luce del sole. I capi di Cosa Nostra salgono a Milano per incontrare Berlusconi in via Larga («Alla riunione eravamo presenti io, Tanino Cinà, Stefano Bontate, Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi», rivelerà il pentito Francesco Di Carlo), pranzi, cene, soldi che passano di mano.

Avrà pensato a questo Dell'Utri, l'anno scorso, quando ricordava a Silvio che erano amici di «vecchia data»? Dalla metà degli anni ‘70 alla fine degli anni ‘80: antenne (gli interessi di Bontate nel settore televisivo) e palazzi (il risanamento del centro storico di Palermo), i rapporti con il finanziere Filippo Alberto Rapisarda e quelli con i soci dell'ex sindaco Vito Ciancimino, le telefonate al commercialista (Giuseppe Mandalari) di Totò Riina, gli intrecci con le cosche catanesi. Tutto è dentro le carte su Dell'Utri, la mafiosità dell'ex segretario di Silvio accertata al cento per cento.

berlu dellutri

Fino al 1992. Poi, è un altro discorso. Poi nasce Forza Italia e Dell'Utri diventa «meno» mafioso, ci sono le stragi Falcone e Borsellino e Dell'Utri allenta il suo abbraccio con quelli di laggiù, una mezza dozzina di pentiti (creduti per tutto il resto) non vengono dichiarati attendibili sulla «disponibilità» di Cosa Nostra a sostenere Forza Italia dopo la fine dei vecchi partiti. Questo certificano gli atti giudiziari in nome del popolo italiano.

Di sicuro, qualche altro dettaglio Marcello Dell'Utri lo conoscerà. Più di quanto abbiano scoperto fino ad ora i giudici. Sul denaro che ha viaggiato da Palermo a Milano, su quell'altro che negli ultimi mesi è arrivato a Santo Domingo (c'è un'indagine per verificare se, per caso, Berlusconi stia restituendo soldi a prestanome di boss nel centro America), sui vincoli con alcune consorterie calabresi.

MARCELLO DELLUTRI E IL PADRINO

Di tutta questa melma, una volta, è stato chiesto conto a Berlusconi. Era il 26 novembre del 2002 e i pm di Palermo domandarono al Presidente del Consiglio: ha qualcosa da dire? Lui, Berlusconi, si avvalse della facoltà di non rispondere.

 

dellutri marcello bordino PRIMI ANNI BERLUSCONI MARCELLO DELLUTRI E MIRANDA RATTI A MILANO jpegdellutri cuffaro bacio BERLU DELLUTRI MARCELLO DELLUTRI DELLUTRI

GLI ALFANIANI VOGLIONO PRENDERSI “LIBERO”? BELPIETROGIUBILA SUBITO IL NEOACQUISTO BONAIUTI: “L’ULTIMO TRADITORE”

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Ncd Angelino Alfano CARTELLONE PARODIA

1. "L'ULTIMO TRADITORE"
Maria Giovanna Maglie per "Libero"


Scommettiamo che ora che ha mollato il Cav,ma un po' è stato accompagnato alla porta, per i più sicuri lidi della Sanità di stato, Paolo Bonaiuti diventerà bravo, anzi bravissimo, sta già succedendo a opera degli stessi giornali che per anni lo hanno svillaneggiato e ieri ne tessevano le lodi, definendolo un Intini, anzi un Tatò, per chi abbia la sorte di ricordare gli assistenti fedeli di Craxi e Berlinguer, e gratificandolo di quell'aggettivo, «moderato», che è il nuovo mantra per definire qualcosa di affidabile che non si capisce che cosa sia.

Maria Giovanna Maglie

Scommettiamo che è tutta colpa della perfida Rossi e del cerchio magico, al quale cerchio si può attribuire anche la prossima eclissi solare, se a 73 anni ne hanno preso un altro, se gli hanno fatto l'offesa sanguinosa di trasferirgli l'ufficio al partito da Palazzo Grazioli, se nel taglio delle spese superflue e nel cambio di ruolo il numero di segretarie si è ridotto. C'erano sempre due pensioni per consolarsi, il seggio al Senato.

MAURIZIO BELPIETRO

C'è un'età che in era di rottamazione come pensiero unico dovrebbe consigliare saggezza e un ruolo più defilato, invece no, non ci vogliono stare, e il bello è che i rottamatori questi rottamati se li prendono, eccome, al governo.

Lo chiamavano il «portasmentite », che smentire sempre e tutto in continuazione era quello che gli veniva meglio, molto meglio che dare notizie sul Cav e sul partito, come il ruolo di portavoce, con l'aggettivo storico aggiunto che piaceva a lui, quello perfido di ologramma che piaceva agli avversari, avrebbe richiesto.

Ma ieri Paolo Bonaiuti non ha smentito proprio niente delle indiscrezioni e dei virgolettati pubblicati da Repubblica, Stampa, Corriere , anticipati da Il Fatto, che lo danno in trasmigrazione al Nuovo Centro Destra di Alfano e del resto del gruppetto di governo e sotto governo, tutti eletti con il Cav.

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Al convegno di Ncd a Roma però non c'era, nemmeno per ascoltare l'intervento ispirato della sua pupilla Beatrice Lorenzin che, con sprezzo del ridicolo diceva di rappresentare «un partito che antepone le esigenze delle persone alle carriere personali». Dov'era Paolino? Forse da vecchio socialista mai pentito e non dotato dello stomaco di Cicchitto né della conversione di Sacconi, non se la sentiva di ascoltare discorsi come quello di Alfano con il ridondare di citazioni di Bibbia, catechismo, papi?

VIGNETTA VINCINO DAL FOGLIO ALFANO TAGLIO IL RAMO DI BERLUSCONI

No, Bonaiuti era al nord, a colazione a villa San Martino, dove pare che abbia posto delle condizioni che andavano dalla candidatura sicura alle elezioni europee al posto al vertice delle Poste al diritto di voto perduto nell'ufficio di presidenza di Forza Italia. Non è andata bene, e Paolino sta volando tra le braccia della vecchia pupilla Lorenzin, ora ministro della Sanità.

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Non che al ministero non lo conoscano già bene, visto che da sei mesi almeno lo frequenta assiduamente, quasi un ufficio al gabinetto del ministro, non si sa per fare cosa né a quale titolo. Stanno tra amici e sodali inseprabili al ministero e nel partito, Sacconi è coniugato con il direttore generale di Farmindustria, Enrica Giorgetti, e Bonaiuti con Daniela Melchiorri, farmacologa poco nota alle cronache, alto dirigente dell'Aifa, l'Agenzia del farmaco, di recente confermata al compito delicato di autorizzazione e prezzo dei farmaci con l'Europa, insomma il fulcro della sanità e della spesa sanitaria.

MINISTRO SACCONI E MOGLIE

Qualche groviglio di interessi? Citofonare Palazzo Chigi. Bonaiuti non è mai stato considerato un portavoce interessante, diciamoci la verità, solo uno fedele, e tanto fedele e affezionato da non consentire accesso a nessuno, soprattutto ai giornalisti, una roba che il cerchio magico che oggi viene tanto deprecato lui se lo faceva da solo, stile hula-hoop. È geloso, spiegavano gli amici, e lui confermava che il Cav lo chiamava «mia suocera», che «non è un rapporto di lavoro quello trame e Berlusconi, ma di affetto. Io non ho più mio padre, né mia madre. Per me lui è un fratello maggiore. Io gli voglio bene. Se mi arrabbio, lo faccio con affetto, il nostro è un rapporto tra due familiari, di stima e di fiducia».

PAOLO BONAIUTI E BEATRICE LORENZIN

Francesco Verderami del Corsera, oggi cronista attento di Alfano, lo definiva così, e non si capiva se c'era ironia sottile: «È la reincarnazione dell'abate Dinouart, per difendere il suo Luigi XIV ha appreso l'arte del tacere fino a sublimarla, perché tacendo non rimane mai in silenzio e neppure mente, piuttosto omette, anzi parla d'altro. Colpisce di nascosto alle caviglie il Cavaliere per frenarne la verbosità».

Certo era talmente onnipresente, e anche un po' opprimente a fianco e alle spalle del Cav che un finissimo umorista, Benedetto XVI, all'incontrarlo, così lo apostrofò: «La vedo sempre in tv... finalmente la incontro di persona». Poi gli hanno tolto l'informativa mattutina, Il Mattinale, che non poteva essere più curiale, i tempi sono cambiati, servono canacci di strada e polemica dura. E lui non lo ha sopportato.

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Non se ne vogliono andare, questa è la verità, neanche su tappeti rossi, e allora passano con Alfano. Il momento è difficile, ma in un attimo di leggerezza ieri in Forza Italia facevano sapere che lo ricorderanno soprattutto per gli assalti al frigorifero, dal quale per una innocua cleptomania alimentare portava via tutto. Tutto in tasca, come lo zucchero al bar.

2. BERLUSCONI CONGEDA BONAIUTI: "SALUTAMI ANGELINO"
Tommaso Labate per "Il Corriere della Sera"


«Va bene, Paolo, ora ti saluto. Ti faccio i migliori auguri se andrai nel Nuovo Centrodestra. E mi raccomando, quando lo vedi, salutami Angelino». La vita è fatta di cose che cominciano e che poi finiscono. Ma il modo in cui è finita la ventennale collaborazione tra Silvio Berlusconi e Paolo Bonaiuti, fino a qualche mese fa, non potevano immaginarlo né l'uno né l'altro. All'ora di pranzo i due sono faccia a faccia nello studiolo di Arcore.

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L'ex portavoce, che ieri l'altro aveva chiesto un «ultimo incontro» al Cavaliere, varca in gran segreto il cancello di villa San Martino che fuori il sole è alto, ed è una bella giornata di primavera. Ma basta che i due inizino a parlarsi, e dentro cala il gelo.

L'AMAREZZA DI BERLUSCONI
È amareggiato, Berlusconi. Convinto che «Paolino», il giornalista a cui per vent'anni ha affidato il ruolo di portavoce, abbia tenuto botta quando «c'erano i tempi d'oro» e lo stia abbandonando «proprio in un momento di difficoltà». Ne aveva parlato anche coi figli e con gli amici più stretti, lamentandosi di «com'è strana a volte la vita».

Angelino Alfano

E di com'è strano, aveva aggiunto confrontandosi al telefono con alcuni deputati romani, «che Bonaiuti se ne vada proprio nel partito di Alfano e Cicchitto, due di quelli che neanche volevano farlo sedere al tavolo quando c'erano le riunioni del Pdl». Con queste premesse, difficile che il faccia a faccia tra i due porti a qualcosa di buono. E i presagi più oscuri, quando Bonaiuti accede al salone di Arcore, prendono forma subito.

PAOLO BONAIUTI BEATRICE LORENZIN FRANCESCA MARTINI

EPILOGO «INGIUSTO»
L'elenco di doglianze che il senatore forzista oppone al «Presidente» è molto lungo. Perché è addolorato pure Bonaiuti, dilaniato anche umanamente da un epilogo che considera «ingiusto» per tutto quello che ha fatto per l'ex premier. Nell'elenco avrebbe trovato spazio anche il modo in cui è maturato il suo allontanamento dalla stanza di bottoni berlusconiana, «col mio ufficio di Palazzo Grazioli che teoricamente doveva essere sgomberato, e invece è stato dato a Giovanni Toti».

Berlusconi ascolta. Probabilmente ribadisce quello che aveva detto in altre occasioni, e cioè che «era necessaria la spending review interna» affidata a Maria Rosaria Rossi, e che la nuova versione del «Mattinale» gestita da Renato Brunetta «funziona anche a costi più ridotti». C'è un momento del colloquio, però, in cui la storia avrebbe potuto virare, prendere un'altra strada.

Succede quando Bonaiuti si dimostra disponibile a ripensarci, forse a dare la sua disponibilità per una candidatura alle Europee con Forza Italia, di certo a dirsi pronto per entrare nell'ufficio di presidenza del partito in una casella in cui è previsto il diritto di voto.

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Ma Berlusconi, stando a quello che avrebbe poi raccontato ad alcuni parlamentari, chiude tutte le porte. Con quei freddi «migliori auguri per la tua carriera nel Nuovo Centrodestra». A cui aggiunge, in calce, il sarcastico «salutami Angelino».

LE LISTE
Il resto di un sabato segnato da un lungo addio, per Berlusconi, è tutto nel lavoro sulle liste per il 25 maggio. Negli appunti dell'ex premier c'è il terzetto che guiderà il Nord Ovest, capitanato da Giovanni Toti, con Lara Comi e Licia Ronzulli. Poi il blocco dell'Italia centrale, guidato da Antonio Tajani, in cui figura anche Melania Rizzoli.

MELANIA E ANGELO RIZZOLI

Nel Nord Est, dietro Elisabetta Gardini, spunta l'imprenditore Mattia Malgara mentre al Sud, capolista Raffaele Fitto, oltre agli uscenti dovrebbe essere candidato anche il caporal maggiore Jonny D'Andrea, ferito in Afghanistan nel 2011 e medaglia d'oro al valore militare. Le incognite non mancano.

Non è escluso che l'ex premier provi a convincere Mara Carfagna e Giancarlo Galan, che al momento escludono la loro candidatura. C'è ancora tempo. E se ne riparlerà oggi, forse, quando ad Arcore potrebbe arrivare il gotha del partito.

 


JOHNNY, PESCE VIVO E “CIMICI” SURGELATE: “LE MICROSPIE? IN TUTTI I LOCALI FAMOSI CI SONO’’

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Virginia Piccolillo per Corriera della Sera

ALBERTO DellUtri risponde Alberto Rigotti

«Al Pacino, De Niro, Danny De Vito. Tutti vengono da "Assunta Madre". Mica solo Marcello Dell'Utri. Che poi ultimamente è venuto solo il gemello». Johnny Micalusi è il proprietario del ristorante in cui è nata e morta la fuga di Dell'Utri. Ma, da Londra, dice «non è un habitué, non lo vediamo da un anno. Comunque era il braccio destro di Berlusconi».

Johnny Micalusi

Sorpreso della microspia sotto il tavolo?
«In tutti i locali famosi ci sono. E a me non interessa. Non voglio coprire il malaffare. Certo qui fa gola a tutti. E chi paga e mangia educato non lo posso cacciare».

Mokbel e l'ex Nar Carminati sono clienti?
«No, ma non li riconoscerei perché ho 200 clienti a sera. A Londra ho appena aperto e ho le transenne per la fila. Un motivo ci sarà».

Johnny Micalusi

Solo il pesce fresco?
«Non fresco, vivo».

Il riciclaggio che sospetta la procura di Roma?
«Non esiste. Lunedì andrò in procura per chiarire quest'accusa che ormai è il segreto di Pulcinella».

Quel Mancuso al tavolo con Alberto Dell'Utri è un suo socio?
«No. Quando nel 2009 ho aperto ho intestato il locale al figlio del cuoco e ai miei figli, ora unici soci. Io ero sotto processo per una storia ormai finita».

L'associazione con il boss della Magliana Nicoletti?
«Presero 4 usurai, tra cui lui. E 20 usurati, fra cui io che avevo il vizio del gioco. Sono stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio».

DELLUTRI, BERLUSCONI

Sospettano anche contatti con la camorra.
«Ma che c'entro io? Mica so' napoletano. So' de Terracina».

 

I ROTTAMATI PIDDINI - UN’ADUNATA DI REDUCI IN CERCA DI POLTRONE (DENTRO AL PARTITO)

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1. IL RITORNO DELLA DOPPIA SINISTRA
Federico Geremicca per "La Stampa"


A Torino, Renzi, ad aprire la campagna elettorale europea con le sue cinque capolista; a Roma, gli ultimi due segretari, Bersani ed Epifani (più D'Alema e altri dirigenti di prima fila) che riaprono le ostilità nei confronti del premier-segretario. Facile parlare dell'esistenza di «due Pd»: e non c'è nulla di scandaloso, in democrazia, che una maggioranza debba fare i conti con una minoranza che si oppone.

IL SALUTO TRA RENZI E BERSANI

Più sorprendenti, invece - e per certi versi preoccupanti - tempi e contenuti del riesplodere della polemica.
Il nuovo scontro, che naturalmente ha motivazioni «ufficiose» assai concrete - e che riguardano il potere che Matteo Renzi sta via via accumulando fuori e dentro il Pd - ieri si è ufficialmente giocato sulla dicotomia destra/sinistra, categorie politiche che vanno perdendo - e ce ne si può perfino rammaricare - senso e importanza per un numero crescente di cittadini.

«Le norme sbagliate della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi», ha accusato da Roma Cuperlo; «La sinistra che non cambia, diventa destra», ha replicato Renzi da Torino.
E a metterla così, è chiaro che si tratta di una discussione che difficilmente farà fare un solo passo avanti tanto al Pd quanto al Paese: che di rimettersi in moto, invece, ha un disperato bisogno.

RENZI A BERSAGLIO MOBILE

Ma tale discussione, per quanto ammantata da richiami ideologici, in realtà conferma il perdurare (e anzi il crescere) di un vero e proprio rigetto del fenomeno-Renzi da parte dei settori più tradizionali - appunto - della sinistra italiana.

Infatti, non sono stati solo i suoi amici di partito, ieri, a mettere nel mirino il presidente del Consiglio, sul cui capo è caduto di tutto: dalle ironie di Susanna Camusso («Ci sono giovani che rappresentano abbastanza poco, anche se sono in posti chiave») alla definitiva scomunica comminata da Stefano Rodotà: «Il nostro sistema politico è segnato da tre populismi diversi tra loro: quello di Berlusconi, quello di Grillo e il nuovo populismo di Renzi».

GUGLIEMO EPIFANI CON BERSANI ALLE SPALLE FOTO LAPRESSE

Il segretario-premier, insomma, sembra esser considerato sempre più un «corpo estraneo» rispetto alle tradizioni (recenti) del Pd, e più ancora a quelle dei partiti che lo hanno incubato: il suo modo di fare, una evidente insofferenza al confronto ed una sorta di indifferenza rispetto a quanto è stato fino ad oggi solitamente considerato «di sinistra» (e, al contrario, «di destra») non vanno giù, e questo è comprensibile.

Ciò che appare meno condivisibile, però, è la contestazione di concreti elementi di verità, la cui sottovalutazione si fatica a intendere, se non alla luce - appunto - della forte polemica politica in corso.
In questo senso si può citare l'intervento svolto ieri da Massimo D'Alema - solitamente freddo nell'analisi - tornato a parlare di cose italiane all'assemblea della minoranza democratica.

«Il Pd - ha spiegato - vive un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica. Questo partito non lo possiamo lasciar morire, lo dobbiamo far funzionare noi, dobbiamo aprire i circoli e fare il tesseramento...». Si tratta di una fotografia catastrofica dello stato di salute del Pd, accompagnata da un richiamo all'antico, alla tradizione.

Ma è una fotografia che non corrisponde alla realtà delle cose, se è vero che ogni sondaggio - in vista delle europee - attribuisce al Partito di D'Alema percentuali superiori a ogni più recente tornata elettorale, e vicine ai consensi-record raccolti da Veltroni nelle elezioni politiche del 2008.

Il punto, dunque, sarebbe forse interrogarsi sul come e sul perché è stato ed è possibile che un «giovane populista» (per mettere assieme le accuse di Epifani e Rodotà) abbia nel giro di due mesi - dicembre 2013, febbraio 2014 - conquistato il più importante partito italiano, prima, e addirittura la guida del governo, poi.

C'è qualcuno che ha sbagliato qualcosa? C'è qualcun altro che non ha inteso l'altissimo livello di insofferenza diffuso tra i cittadini-elettori del Paese?
La riflessione della minoranza Pd dovrebbe dunque partire da qui, piuttosto che adagiarsi su schemi di comodo.

RENZI-DALEMA

E dovrebbe esser avviata - per il Bene Superiore del Partito, che pure viene così invocato - forse non giusto a ridosso di una importante (forse decisiva) sfida elettorale come quella di maggio. A meno che, naturalmente, non si intenda con tali polemiche segnalare a iscritti e simpatizzanti che nulla è cambiato, e che il Pd è pronto - appena ne avrà l'occasione - a divorare il suo quinto segretario in sei anni. Faccenda con la quale, lo si riconoscerà, la dicotomia destra/sinistra non c'entra un bel niente...

2. L'ASSEMBLEA DEI REDUCI PD
Mattia Feltri per "La Stampa"


Dove andare non è soltanto un problema politico. Livia Turco per esempio va nella direzione opposta, nel senso che si lascia alle spalle il teatro Ghione, dove si riunisce la minoranza Pd. Si è persa? Si è scocciata? Sono entrambe posizioni ideologicamente comprensibili se un uomo delizioso come Staino, storico vignettista dell'Unità, è alla caparbia ricerca della terza via: «Sono qui perché Cuperlo mi ha precettato sul piano dell'affetto».

Gianni Cuperlo

Però, dice, non mi piace né il nuovismo renziano né questo reducismo. La piantina politico-sentimentale del Pd è fitta di alternative: Francesco Boccia è qui come invitato ma non parla perché deve andare in Puglia; Goffredo Bettini è qui ma non aderisce, ha semplicemente delle cose da dire.

In ossequio alla cronaca servono dettagli: ore 10,30, Roma, zona San Pietro, teatro Ghione, in perfetta coincidenza con l'apertura torinese della campagna elettorale renziana, Gianni Cuperlo, Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani, più Stefano Fassina, Barbara Pollastrini e un paio di altre centinaia di persone si riuniscono per indicare la strada giusta. E quindi: la sovrapposizione degli eventi non ha intenzioni ostili, «siamo idealmente a Torino», dicono tutti e lo dice per primo Roberto Gualtieri candidato alle Europee.

Casualità. Anzi, l'iniziativa di Cuperlo era stata organizzata prima e, al limite, come dice D'Alema, doveva essere Matteo Renzi a cambiare data. Però non perdiamo il filo: siamo qui ma siamo anche a Torino. E, osserva Cuperlo appena salito sul palco, siamo qui ma non stiamo celebrando la coda del congresso.

LIGRESTI E DALEMA

Anzi, siamo renziani ma non renziani nel modo in cui intende Renzi. Cioè: «Aiuteremo le riforme, sono decisive per il Paese, ma dobbiamo farlo rivendicando principi e merito delle scelte». Durante tutto questo tempo, D'Alema meriterebbe una telecamera dedicata: strabuzza gli occhi, aggrotta la fronte, gonfia le guance, si infila una penna in bocca che stringe fra i denti come il coltello di Tarzan.

Non che disapprovi, ma chissà se si riconosce nella stravagante parabola cuperliana dell'aquila dal becco e dagli artigli deboli che, dunque, si sbriciola il becco medesimo contro una roccia affinché ricresca più forte e, quando sarà ricresciuto, si strapperà gli artigli di modo che anche quelli tornino robusti e, insomma, l'aquila sarebbero proprio Cuperlo e gli altri. Vabbè.

DALEMA E RENZI

Però la poetica dell'ex sfidante di Renzi - secondo cui «bisogna smettere di essere minoranza e diventare pensiero» - trova compimento nella splendida concretezza di D'Alema: «Forse la minoranza non deve tanto aspirare a diventare pensiero quanto maggioranza, diciamo». Puro buon senso, ma come? Qui la rotta appare già più incerta perché - confermato che anche a D'Alema le riforme garbano, ma non gli garbano a questa maniera, né quella elettorale né quella del Senato - l'ex presidente del Consiglio esprime il suo sdegno a proposito del «processo di destrutturazione e impoverimento del partito».

Non fanno più nemmeno il tesseramento, dice. E allora facciamolo noi il tesseramento, aggiunge. E avrà senz'altro ragione, D'Alema, ma non saremmo sicurissimi che si tratti di temi vincenti con un avversario come Renzi.

MASSIMO DALEMA CONTADINO

E nemmeno che lo sia l'adorabile prosa della sindacalista Carla Cantone, incaricata di ricordare i bei tempi della concertazione e dei partiti collettivi anziché personali. E allora dove si deve andare? Perché degli ottanta euro sono contenti, ma non è tutto lì. Perché la riduzione degli stipendi dei manager è ineccepibile, ma serve ben altro.

Perché, come dice il più applaudito di tutti, Pierluigi Bersani, anche la politica deve «stringere la cinghia ma non è accettabile cancellare il finanziamento pubblico alle attività politiche». Dove andare se alla fine rimane un senso di vaghezza, come davanti ai cartelli che indicano "tutte le direzioni"?

 

ALFANIANI ALLA RISCOSSA! - DOPO LE EUROPEE POTREBBE ARRIVARE DAL PD IL ROSICONE ENRICO LETTA

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Barbara Romano per "Libero"

La zattera inizia a crescere e da grande vuole fare la nave. Mentre Berlusconi continua a perdere pezzi, Alfano fa proseliti. Prima l'Udc. Ora ha quasi conquistato i Popolari di Mario Mauro. A giorni sono dati in arrivo due-tre senatori di Fi, dove nell'Ncd si prevede uno smottamento quando l'ex Cav finirà ai servizi sociali.

ANGELINO ALFANO ENRICO LETTA GREAT GATSBY

E in futuro potrebbe arrivare anche Enrico Letta, il pesce più ambito nel mare dei moderati cui sta pescando Alfano, che ha un'attenzione anche all'area polare del Pd.Non a caso si è parlato fino all'ultimo di un'apparizione dell'ex premier alla Fiera di Roma, dove si celebra in questi giorni l'Assemblea costituente dell'Ncd. Inizialmente nel panel era anche previsto un suo intervento.

Poi Letta, come sempre, ha ceduto alla prudenza e non si è presentato neanche con la delegazione del Pd, che è andata a omaggiare l'alleato di governo venerdì. Proprio per non dare adito alle voci che lo avrebbero subito associato all'ex portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, dato per acquisito al Ncd (ma che in realtà sta ancora trattando la sua permanenza in Fi).

Che Letta e Alfano si piacciano si sa. E oltre un anno al governo assieme non ha fatto che consolidare il loro legame. Se sono rose fioriranno. Ma solo dopo le Europee, e in base al risultato che farà l'Ncd. Alle Politiche semmai. Ma ne deve passare ancora di acqua sotto i ponti...

ALFANO LETTA CETRIOLO

Intanto, complice la malasorte altrui - la cattura dell'ex senatore azzurro Marcello Dell'Utri di cui il destino ha voluto fosse proprio Alfano, in qualità di capo del Viminale, ad annunciare la cattura a Beirut e la richiesta di estradizione - comincia a farsi notare l'ex delfino di Berlusconi.

DELLUTRI

Anche Oltralpe, dove ha incassato l'endorsement del leader dell'Ump Jean-Francois Copé: «Noi confidiamo nel successo dell'Ncd e nella sua capacità di riunire la destra e il centrodestra sotto la leadership di Angelino Alfano». È proprio questo lo scopo del leader dell'Ncd, che oggi lancerà un appello gli azzurri delusi. E non solo a loro,ma a tutti i moderati, per la costruzione di un grande partito di centrodestra che prenda il posto di Forza Italia.

DELLUTRI E BERLUSCONI

Obiettivo immediato: convincere definitivamente anche Mario Mauro ad entrare in squadra per dare vita a un gruppo unico al Senato, che ha l'ambizione di diventare il più grande di Palazzo Madama, ovviamente dopo quello del Pd che conta 108 parlamentari.

Alfano punta a raggiungere quota 50 unendo ai suoi 32 senatori gli 11 centristi più i transfughi di Forza Italia, che nell'immediato arriveranno col contagocce: «Due, tre sono già con noi»,confidava ieri nel padiglione 6 della Fiera di Roma un'autorevolissima fonte del Ncd, «ma poi quelli di Fi ci pregheranno di venire con noi».

LETTA E ALFANO FESTEGGIANO IN SENATO

Un pezzo da 90 sarebbe già passato all'Ncd. Ma l'arrivo di Bonaiuti, dato per certo nell'Ncd, tanto sicuro non è. Non è un caso che, mentre gli alfaniani ieri brindavano al nuovo acquisto, Mariastella Gelmini assicurava: «Io non penso che Bonaiuti prenda questa decisione, perché è un punto di riferimento in Forza Italia ».

In realtà, stando a quanto riferiscono fonti di Fi e Ncd, Bonaiuti starebbe trattando con Fi. Sarebbe stato lui a far trapelare la notizia del suo passaggio ad Alfano per alzare la posta con l'ex Cav. Arrabbiato è arrabbiato Paolino, e da un bel po'. Era già in sofferenza per l'emarginazione cui lo ha condannato il cerchio magico di Berlusconi, che lui ha sentito l'ultima volta al telefono a Natale.

RENATA POLVERINI PAOLO BONAIUTI

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato scoprire che nel cortile di Palazzo Grazioli sono stati parcheggiati gli scatoloni del suo ex ufficio, ora occupato da Giovanni Toti. Non solo: quando ha mandato una persona a recuperarli, è stata cacciata via a mani vuote. E lui non c'ha visto più. Gli alfaniani ormai lo considerano dei loro. Ma fino a oggi all'assemblea del Ncd Bonaiuti non s'è visto.

2. NCD: PREVISTO PER DOMANI INCONTRO BONAIUTI-ALFANO
(AGI)
- Esce da FI ma rivendica di "restare nel centrodestra", Paolo Bonaiuti. E, a quanto si apprende, già domani sarebbe in programma un incontro tra l'ormai ex storico portavoce di Silvio Berlusconi e il leader Ncd, Angelino Alfano.

 

FIAT LUX - PALAZZO GRASSI ANTICIPA LA BIENNALE ARCHITETTURA E LA SFIDA CON I FUOCHI DI ARTIFICIO

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Alessandra Mammì per Dagospia

 

Giocando d'anticipo sulla Biennale d'Architettura e su tutto l'ambaradam di mostre e feste che ne consegue, Palazzo Grassi ha inaugurato ieri, tutto da solo, la sua mostra dell'anno. Tanto è sicuro; sarà un protagonista della festa in arrivo anche senza le trombe del vernissage. Prima di tutto perché un passaggio nel tempio di Pinault è d'obbligo anche per gli architetti. Secondo:perché basta l'effetto speciale della hall immersa in abbaglio luminescente per dire che la scommessa è vinta in anticipo.

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"L'illusione della luce", curata come sempre da Caroline Bourgeois e allestita con opere di collezione Pinault, è tutta una storia di abbagli. Il primo che ci avvolge come una nebbia arriva da Doug Wheeler, un californiano che vive ai confini del New Mexico. Fondò con Turrell e Robert Irwin il movimento Light& Space ma non deve essere stato indifferente neanche a Hollywood. O almeno ne respira lo spirito, se costruisce questo effettone ad alta definizione come se fossimo su un set di un kolossal fantasy. Ma basta entrare nella scena e si scoprono i faretti, basta aggirare la parete e si vede che tutto il mistero sta in un scatolone concavo, tenuto insieme da dadi&bulloni. Meraviglie da maestranze, come a Cinecittà dei tempi d'oro. Il trucco c'è e si vede. Del resto anche l'arte come il cinema è solo fabbrica di sogni.

ECHAKHCH

Dall'estasi dell'abbaglio ottico al mal di pancia di quello storico. Sono i filmati che registrarono l'esperimento atomico a Bikini. Non sappiamo come il cineasta molto sperimentale Bruce Conner riuscì a farseli dare dalla Cia. Tant'è. Li rimise insieme e ne fece il catastrofico più agghiacciante del secolo. Anche perché tutto vero. Il fungo atomico scoppia, s'innalza per 13 chilometri con una ricchezza di forme barocche. Conner ci aggiunge la musica minimale e ipnotica di Patrick Gleeson e Terry Riley. Si grida meraviglia, si riconosce la bellezza all'orrore. Forse è il Sublime in versione XX secolo. Ci sembrò ancora più terribile questo filmato quando fu mostrato nella scuola ebraica di August Strasse per la Biennale di Berlino firmata Gioni&Cattelan, qui forse indugia forse un po' troppo nella sua grande bellezza. Per cui sarà bene ricordare che tutti quelli che la filmarono dagli elicotteri (ben 500 telecamere più i piloti) morirono per le radiazioni. E non fu bella morte.

lavier

E poi si arriva all'abbaglio dell'animo e della mente. Storia di uno schizofrenico si potrebbe chiamare la installazione a più schermi e a più storie che narra Eija-Liisa Ahtila nella au asala al primo piano . Storia vera che lei ha raccolto dalla esperienza di Aki V. ingegnere informatico di Nokia impazzito e vittima di episodi psicotici. La sua vita spezzata dà qui vita a un racconto frammentato dove diventano reali le sue allucinazioni e prendono corpo ai fantasmi. Ci si può a restare a lungo nella penombra a sentirli raccontare.

Le Parc


Secondo la curatrice se si vuole fare una mostra sulla luce bisogna in qualche modo farne a meno. Senza il buio non c'è luce ( De la Palisse direbbe) e dunque parte del percorso si svolge tra tende che custodiscono video o esperimenti fatti di niente con risultati magnifici ( vedi Julio Le Parc) come solo quegli uomini lucidi degli anni Sessanta che operavano fra scienza ottica e optical art riuscivano a ottenere con due specchietti e una lampadina. L'intelligenza in effetti è già una luce.

Certo quando si arriva nella grande stanza del piano nobile e ci si trova accarezzati dalle tende bianche leggere di mussola ricamata che nascondono foto di giovinetti scattate in Vietnam da un soldato americano (di certo gay,) accanto a storie di un missionariocondannato a morte, nell'eleganza dello spazio e nella poesia della mise en scene firmata da Danh Vo (vietnamita rifugiato piccolissimo in Europa ai tempi della guerra ci si chiede: ma qui di quale luce (o abbaglio) stiamo parlando?

Ora è tipico cdelle mostre curate da Caroline Bourgoise quello di essere sempre sul limite dell'infedeltà al tema. E' il suo bello. Certezza del dubbio e dubbio della certezza. Quando Caroline parla di amore ci si può trovare nell'orrore e se cita la luce non è detto di trovare i neon. Invece qui ci sono.

corren

C'è il celebre monumento a Tatlin di Dan Flavin. l'insegna trionfale sulla scalea di Parreno la copia in tubi colorati con cui Bertrand Lavier rifà un Frank Stella. C'è anche un neon interattivo di Robert Irwin, uomo nato nel 1928 e militato nella ricerca americana, artista che invita il visitatori a  spegnere e accendere gli interruttori per modificare a suo gusto l'opera e partecipare all'atto creativo.

Ma lo sappiamo anche questo è un abbaglio. Un abbaglio anni Sessanta, Settanta quando si parlava di libertà, democrazia dell 'arte, partecipazione, rivoluzione. L'abbaglio più grande, non a caso tra gli ultimi del percorso.

 

UBI MAIOR SORGENIA PREMIT! – UBI FA OUTING: I 149 MILIONI DI PRESTITO PASSATI A “INCAGLIO”

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Carlotta Scozzari per Dagospia

debenedetti rodolfo x

Il silenzio dei bilanci la dice lunga su come la vicenda Sorgenia imbarazzi profondamente le banche nostrane. Non è un mistero, infatti, che i principali istituti di credito italiani - primo tra tutti il Monte dei Paschi di Siena, ma è in buona compagnia di Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Banco Popolare e Ubi - abbiano scelto di concedere credito alla utility per quasi 2 miliardi a fronte di un investimento iniziale della famiglia De Benedetti, prima socia attraverso la holding Cir, di appena qualche centinaia di milioni di euro.

Un trattamento che gran parte delle imprese italiane ha soltanto potuto sognare negli anni migliori dell'economia, e a maggior ragione in questi tempi di crisi e di cordoni della borsa da tirare.

E' dunque possibile che nei bilanci del 2013 appena depositati dai grandi istituti di credito italiani (all'appello manca ormai solo Unicredit) non si faccia il minimo cenno alla questione della ristrutturazione in corso del debito di Sorgenia perché la vicenda è delicata e crea ben più di un imbarazzo.

rodolfo E carlo de benedetti lap

Per fortuna però che anche questa volta c'è un'eccezione che conferma la regola. A squarciare il silenzio è, infatti, un istituto di credito: Ubi Banca, che nel bilancio fornisce i dettagli dell'esposizione alla utility guidata dall'amministratore Andrea Mangoni (che tra l'altro ha appena ricevuto una delega per esaminare la proposta che dovrebbe portare le banche a diventare socie della controllata di Cir).

L'istituto di Bergamo e Brescia, guidato dal consigliere delegato Victor Massiah, ammette di avere dovuto trasferire i 149 milioni di credito accordato a Sorgenia da una classificazione "in bonis", che cioè non presenta problemi, alla voce "incagli lordi", vale a dire il penultimo grado di rischio dei prestiti deteriorati, l'anticamera delle sofferenze, che sono invece quei soldi che le banche danno ormai quasi per persi.


In particolare, l'esposizione di 149 milioni verso la utility è stata inserita all'interno della voce "incagli lordi assistiti da garanzie reali", che per Ubi a fine 2013 superava i 3,1 miliardi di euro, con un aumento dello 0,5% su base annua. Oltre a Sorgenia, la voce contempla anche 87,9 milioni prestati dalla Popolare lombarda a Pescanova, il gruppo spagnolo attivo nel settore della pesca e dei surgelati che nel 2013 è finito in quel che per la legge fallimentare italiana potrebbe essere definito un "concordato preventivo in continuità".

L'istituto guidato da Massiah scende poi nel dettaglio dell'esposizione a Sorgenia, spiegando che nel complesso ammonta a 154 milioni, 149 dei quali (quelli appunto passati a incaglio) per cassa e 5 milioni di firma, ossia di garanzie fornite dalla banca su prestiti contratti dalla società. Considerando anche i crediti di firma, nel complesso il debito di Sorgenia supera i 2 miliardi di euro.

ubi banca

L'esposizione di Ubi verso la utility, si legge ancora a bilancio, "è stata classificata da bonis a incaglio dopo l'apertura da parte della società di un processo di ristrutturazione del credito le cui dinamiche industriali e finanziarie sono ancora in fase di elaborazione. Sono state operate rettifiche sulla base delle informazioni a oggi disponibili".

Ma la Popolare lombarda fa di più e si spinge persino a inquadrare la situazione di Sorgenia, descrivendo le cause che hanno portato alle ben note difficoltà finanziarie: "Rispetto a un contesto di mercato già caratterizzato da domanda in calo, eccesso di capacità produttiva e tensioni sui prezzi, la società presenta alcune connotazioni industriali e finanziarie specifiche quali: un mix di generazione prevalentemente costituito da centrali alimentate a gas (tra le più moderne del comparto), difficoltà di inserimento nel mercato residenziale già fortemente presidiato, uno sviluppo del business finanziato in passato con livelli di leva non più sostenibili". Con quest'ultima considerazione, sembra quasi che Ubi voglia fare un "mea culpa", visto che è tra i gruppi che hanno abbondantemente finanziato Sorgenia.

Gli altri invece preferiscono tacere a bilancio. Persino Mps, che non soltanto è la banca più esposta in termini di debito, per circa 600 milioni, ma è anche piccola azionista della utility con una quota dell'1,16 per cento. Peccato soltanto che, a differenza di quello del 2012 (quando la partecipazione era stata svalutata da 40,3 a 7,7 milioni), il bilancio del 2013 del gruppo presieduto da Alessandro Profumo e guidato da Fabrizio Viola non faccia menzione della quota in Sorgenia. A questo giro, infatti (potendolo fare), l’istituto senese ha preferito restare un po’ più “abbottonato”.

sorgenia LOGO

 

MARCO DELL’UTRI: “ERAVAMO IN LIBANO PER AFFARI” DI SLOT MACHINES. MA NON ERANO VISITE MEDICHE?

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Francesco Viviano per ‘La Repubblica'

Aveva un biglietto aereo di andata e ritorno dal Libano, Parigi-Beirut-Parigi. Partenza il 24 marzo, rientro il 29. Almeno sulla carta visto che il 3 aprile uno dei due cellulari che si portava dietro è stato localizzato di nuovo nella capitale libanese e che il 10 aprile, 48 ore prima del suo arresto, Marcello Dell'Utri è tornato all'hotel Phoenicia Intercontinental, dove era già stato a marzo e dove gli agenti dei servizi di sicurezza libanesi e un funzionario dell'Interpol italiana lo hanno arrestato sabato mattina.

MARCELLO DELL'UTRI

Alla vigilia dell'udienza di convalida del fermo che si terrà stamattina quando Dell'Utri, dopo due notti trascorse "serenamente" nella fortezza della polizia locale, nel centro di Beirut tra il Museo nazionale e il palazzo di giustizia, comparirà davanti a un giudice, gli investigatori cercano di ricomporre il mosaico dei suoi spostamenti negli ultimi venti giorni.

Se ha fatto due volte avanti e indietro da Parigi a Beirut, come indicherebbero i biglietti ritrovati durante la perquisizione nella lussuosa suite da 750 euro a notte che occupava al Phoenicia, perché lo ha fatto e che intenzioni aveva? Chi ha incontrato e qual è il vero motivo della sua presenza a Beirut con una somma di denaro in contanti così consistente (30.000 euro in banconote da 50)?

Un tentativo maldestro e con molti aspetti contraddittori di sottrarsi alla possibile cattura in caso di condanna, motivi di salute come ha detto lui stesso quando è stato dichiarato ufficialmente latitante o qualcuno dei suoi misteriosi affari, legati in qualche modo agli stretti rapporti di Silvio Berlusconi con l'ex presidente Gemayel o al suo amico imprenditore Gennaro Mokbel che gli avrebbe in qualche modo "aperto la strada" aiutandolo a procurarsi passaporti diplomatici di paesi "amici" come la Guinea Bissau? Sono tutti interrogativi per il momento senza risposta.

Con lui, sicuramente, nel primo soggiorno a Beirut c'era il figlio Marco, arrivato stanotte dall'Italia insieme alla madre Miranda Ratti nel tentativo di avere il permesso di incontrare il padre detenuto. «Ero venuto a Beirut con mio padre per affari», dice. Affari, sembra legati, alla Jackpot game, la sua società di piccoli casinò che punta sulle slot machine e sulle videolotterie e che voleva forse, tramite i buoni canali del padre, inserire sul mercato libanese.

Marcello Dell'Utri

Quel che sembra certo è che il 24 marzo, sul volo Parigi-Beirut, Marcello Dell'Utri viaggiasse in business class in compagnia del figlio, come comprova il biglietto dell'Air France costato 1.728 euro. Ma se il 29 marzo Dell'Utri è tornato a Parigi cosa ha fatto e dove è stato in quel buco di soli 5 giorni prima che l'imei di un suo vecchio cellulare venisse localizzata dalla Dia nuovamente a Beirut il 3 aprile? Questa seconda volta, l'ex senatore sarebbe tornato in Libano da solo anche se, nei venti giorni in cui la Dia ha tenuto d'occhio tutti i suoi domicili conosciuti in Italia, mai nessuno dei suoi familiari (a cominciare dalla moglie Miranda) è mai stato visto.

alberto dell utri e la moglie mariapia la malfa

"Ospite" inavvicinabile nella fortezza della polizia di Beirut, dove ha chiesto di poter avere alcuni dei libri che si era portato dall'Italia, Dell'Utri comparirà questa mattina davanti al procuratore generale libanese Samir Hammoud e a lui spiegherà se stava scappando dalla giustizia italiana o se, come ha fatto sapere, era qui per un consulto medico dopo l'intervento di angioplastica che avrebbe subito a marzo al San Raffaele a Milano, un'altra circostanza che gli investigatori stanno verificando.

E sembra che Dell'Utri abbia intenzione di ribadire al procuratore la sua "disponibilità" a non sottrarsi alla magistratura italiana non opponendosi dunque alla procedura di estradizione. Cosa che velocizzerebbe di molto il suo rientro in Italia. Osserva il suo difensore Giuseppe Di Peri: «E' un'offesa all'intelligenza ed è contrario alla logica più elementare ritenere che Marcello Dell'Utri abbia deciso di sottrarsi alla giustizia italiana fuggendo in un paese straniero dove ha usato il proprio passaporto, la propria carta di credito e il proprio cellulare e dove si è registrato in albergo con il proprio nome».

MARIO MONTI E LE SLOT MACHINES DAL FATTO QUOTIDIANO jpeg marco e marcello dell'utri.

Ieri Marcello Dell'Utri ha compilato il "questionario" di rito per i detenuti e firmato il verbale di perquisizione con l'elenco di quello che gli è stato trovato nella suite dell'hotel Phoenicia. Insieme ai 30 mila euro, anche due passaporti italiani, uno valido e l'altro, quello diplomatico del Senato ormai scaduto. «In cella - dice un investigatore italiano - è stato tranquillo e sereno, ha mangiato e dormito ed ha chiesto soltanto dei libri».

 

ROCK AROUND THE SHOT! LA ELVIS PRESLEY ENTREPRISES FA CAUSA ALLA BERETTA DI BRESCIA

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da www.rockol.it

The King of Rock N Roll con fucile

VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=clrYv-_R0Q8

La società che si occupa della tutela del patrimonio artistico di Elvis Presley, la Elvis Presley Enterprises, ha fatto causa alla Beretta, la nota fabbrica di armi con sede in provincia di Brescia.

Secondo quanto riportato dal sito scandalistico TMZ, infatti, l'azienda (che produce armi da fuoco di ogni foggia da oltre 500 anni) avrebbe utilizzato senza la dovuta autorizzazione l'immagine di Elvis nella campagna pubblicitaria per promuovere il fucile 692.

La Elvis Presley Enterprises, nel documento presentato alle autorità, sostiene che Elvis amava - come noto - le armi, ma non ha mai avuto alcun contatto con il business legato alla loro vendita; per cui si chiede che Beretta cessi immediatamente di utilizzare l'immagine del Re per i suoi scopi.
Inoltre la EPE lamenta il fatto che Beretta, durante l'edizione del 2013 di SHOT - una sorta di fiera gigantesca dedicata alle armi - ha utilizzato degli imitatori di Elvis per animare il proprio stand.

Elvis era un fanatico delle armi jpeg

A quanto pare l'azienda bresciana non ha rilasciato alcun commento ufficiale sull'accaduto.

 

 

Elvis al matrimonio di George Klein

RE GIORGIO POTREBBE DARE LE DIMISSIONI ALLA FINE DEL SEMESTRE DI PRESIDENZA EUROPEA DELL’ITALIA

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Claudio Cerasa per il Foglio

Sono voci che si rincorrono. Sussurri che si ripetono. Veline che si producono. Suggestioni che si manifestano e che si mescolano come in un gigantesco shaker con i nomi di Walter Veltroni, di Pier Luigi Bersani, di Piero Fassino, di Stefano Rodotà, di Matteo Renzi e naturalmente di Giorgio Napolitano. Il tema è sempre quello. E' un tema delicato, scivoloso, dove le polpette avvelenate sbucano fuori con la stessa velocità con cui nel Pd sbucano fuori sindaci che rinunciano alle candidature in Europa.

VELTRONI FRANCESCHINI E BERSANI

Ed è un tema con cui il presidente del Consiglio dovrà fare i conti nei prossimi mesi, se è vero quello che da qualche giorno raccontano alla Camera alcuni importanti esponenti del Pd di fronte ai colleghi parlamentari. L'ultimo in ordine di tempo è stato un ex segretario dem che tre giorni fa in Transatlantico si è avvicinato a due deputati del suo partito e gli ha raccontato quello che poco prima aveva ascoltato in presa diretta da un canale in contatto con il Quirinale. "Il presidente della Repubblica sta valutando se considerare concluso il suo mandato in concomitanza non con la fine del semestre europeo ma con l'approvazione al Senato della legge elettorale".

La voce gira. I sussurri si rincorrono. I vecchi amici del presidente dicono che i tempi non sono ancora maturi e che Re George vuole avere la certezza che oltre al treno della legge elettorale sia incardinato sul binario delle riforme anche il vagone delle riforme costituzionali.

Al Quirinale, come sempre, e giustamente, non confermano e neanche smentiscono, ma nel Pd, e più in generale nell'universo del centrosinistra, i movimenti sono partiti, la corsa è cominciata, i deputati fanno calcoli, i leader si muovono immaginando nuove alleanze, gli auto candidati cercano, per coccolare una speranza, un qualsiasi gesto di assenso di un qualsiasi componente del cerchio magico renziano, di uno qualsiasi tra Luca Lotti, Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, e allora cominciano i ragionamenti. Romano Prodi?

BERSANI E VELTRONI

No, questo Parlamento eleggerà un candidato espressione di una grande coalizione allargata e il successore di Giorgio Napolitano non potrà che essere non sgradito anche al Cavaliere. Giuliano Amato? No, Renzi ha un ottimo rapporto con l'ex presidente del Consiglio ma Amato, come D'Alema, rischierebbe di piacere più al centrodestra che al centrosinistra e la sua candidatura non esiste.

Pier Luigi Bersani? Sarebbe la candidatura perfetta, Bersani ci pensa, i suoi ci ragionano, Cuperlo ne parla apertamente ai colleghi in Parlamento, i bersaniani dicono che Pier Luigi sarebbe la persona giusta per conquistare voti anche tra i grillini ma i renziani dicono che Renzi sogna al Quirinale una persona con cui costruire una forte sintonia, una complicità, e da questo punto di vista Bersani non sarebbe la persona giusta.

Walter Veltroni? Di tutti i nomi presenti sulla rosa di Renzi è quello che tecnicamente avrebbe tutti i requisiti per essere il successore naturale - giovane, 58 anni, ex sindaco, come Renzi, consenso trasversale, ottimo rapporto con il Quirinale, buona sintonia con il premier - ma se il criterio con cui Renzi sceglierà l'erede di Napolitano dovesse essere il modello "sindaco d'Italia" i candidati che si andrebbero ad affiancare a Veltroni sarebbero molti e si trovano uno a Torino (Piero Fassino) e uno persino a Palazzo Chigi (Graziano Delrio). Calcoli, sentieri, percorsi, alleanze, ragionamenti.

Colaninno, Bersani e Veltroni

Di sicuro non c'è nulla o quasi. Ma a Palazzo Chigi alcune certezze esistono sulla partita del dopo Napolitano. La prima è che sarà questo Parlamento a scegliere il successore di Re George - salvo che la situazione precipiti all'improvviso e Renzi decida di andare a votare a ottobre.

RENZI E NAPOLITANO AL GIURAMENTO

La seconda è che a Palazzo Chigi sono convinti che le inedite convergenze parallele sperimentate negli scorsi giorni attraverso l'appello promosso da Libertà e Giustizia contro la "svolta autoritaria" di Renzi siano un primo tentativo di costruire un'alleanza per il dopo Napolitano (l'appello è sottoscritto non solo da professoroni a Cinque stelle alla Stefano Rodotà e alla Gustavo Zagrebelsky ma anche da intellettuali alla Beppe Grillo e alla Gianroberto Casaleggio).

La terza è che anche sul Quirinale Renzi proverà a fare come le altre volte. Come sulla lista dei ministri. Come sulle candidature per le Europee. Come sulle candidature per le aziende pubbliche. Sparigliare. Trovare nuovi nomi. Tentare lo schema Raffaele Cantone. Ovvero far di tutto per avere un candidato che possa conquistare contemporaneamente Cinque stelle, Forza Italia e il Pd.

GIULIANO AMATO ROMANO PRODI FOTO LAPRESSE boschi-delrio

La quarta certezza è invece culturale. Renzi ne ha parlato con alcuni collaboratori e anche se negli ultimi mesi il presidente del Consiglio si è distinto per essere incline a cambiare rapidamente idea sulle proprie idee su questo punto la convinzione del premier sembra essere solida: al Quirinale, quando arriverà il momento, ci sarà un politico vero. Perché con la società civile al vertice delle istituzioni politiche abbiamo già dato. E il riferimento al presidente del Senato Pietro Grasso, ovviamente, non è del tutto casuale.

 

 

fassino dalema

GRUPPO VERSACE MENO SANTO - DONATELLA VERSACE E FIGLIA PIU' FORTI NELLA HOLDING SOCIA

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Maria Silvia Sacchi per ‘CorrierEconomia - Corriere della Sera'

L'ingresso di Blackstone nella Gianni Versace è stata l'occasione per definire e mettere nero su bianco gli assetti interni alla famiglia Versace. Il nuovo statuto di Givi (la holding tramite cui i Versace controllano la società della moda) sancisce la definitiva alleanza tra Donatella Versace e la figlia Allegra Versace Beck.

Lady Gaga e donatella Versace

Attraverso un sistema molto complesso di norme, madre e figlia - titolari, rispettivamente, del 20 e del 50% del capitale di Givi - hanno, infatti, «saldato» le proprie azioni: da adesso in poi il loro complessivo 70% si muoverà insieme anche per statuto.
In parallelo, la posizione di Santo Versace, fratello di Donatella e azionista con il 30%, si fa via via più sfumata.

Non è in discussione la sua presenza e il suo contributo: ha co-fondato la maison, resta e resterà presidente fino a quando lo vorrà. Ma il punto è quanto succederà dopo di lui. A Santo è stato riconosciuto un diritto di recesso nel caso della (prevista) quotazione della Gianni Versace. Soprattutto, i suoi eredi potranno liquidare le proprie azioni vendendole al ramo di Donatella e Allegra (anziché restare azionisti senza poter contare nelle decisioni) ma a loro volta Donatella e la figlia potranno chiederne direttamente il riscatto.

Dopo Santo, insomma, la Versace sarà completamente nelle mani del ramo di Donatella (una strada di fatto obbligata, conseguente alla scelta di Gianni Versace, lo stilista ucciso a Miami 16 anni fa, di lasciare il suo 50% del capitale alla nipote Allegra).
La composizione degli organi sociali riflette questo quadro e alle azioni di Santo Versace è riservato un posto sui quattro totali disponibili e un sindaco effettivo sui tre effettivi e i due supplenti.

Lo si legge sui documenti depositati in Camera di commercio. Va detto che, sentite fonti non ufficiali vicine a tutti i diversi componenti della famiglia, la definizione degli equilibri familiari è avvenuta in un clima rilassato e condiviso.

Donatella Versace gonfia e accigliata

Passi
Il primo passo della nuova architettura è stata la suddivisione del capitale in tre diverse categorie di azioni: le azioni A a Santo Versace, le azioni B a Donatella Versace e Allegra Versace Beck, le azioni C a Blackstone. Di fatto è come se gli azionisti si fossero organizzati - pur senza scegliere la formula societaria - attraverso quelle che sono definite «holding di ramo» adottate da molte famiglie imprenditoriali al passare delle generazioni (le hanno, per esempio, i Barilla e i Benetton). In questo modo le decisioni vengono prese all'interno del singolo nucleo familiare.

Per un certo periodo le azioni non si potranno cedere. Lo statuto prevede, infatti, un periodo di lock up di cinque anni, a meno che non vi sia il consenso scritto di tutti i soci alla vendita. È ovviamente previsto il diritto di prelazione in favore degli altri soci.

Francesca Versace

Tutele
Il fondo americano Blackstone, si sa, è entrato nella società operativa, la Gianni Versace, che è destinata alla quotazione (articolo a fianco). Non è entrato nella cassaforte di famiglia. Ma per tutelare il proprio investimento (complessivamente 210 milioni di euro) Blackstone ha deciso di avere un posticino anche nella Givi e, soprattutto, ha stretto accordi che lo preservino nel caso di cambiamenti dell'azionariato ai piani alti. Se i Versace dovessero lasciare, insomma.

Al momento le azioni di categoria C riservate a Blackstone in Givi holding sono una sola e finché resta una non ha diritto di voto. La cosa rilevante è la previsione del diritto di co-vendita, disciplinato in statuto. La norma prevede che nel caso in cui Santo e/o Donatella e Allegra Versace cedano ad altri più del 50,01% del capitale, gli altri azionisti hanno il diritto di vendere tutta (e non solo parte) della propria quota e allo stesso prezzo. Blackstone, in particolare, cederà anche le azioni possedute nella Gianni Versace.
Sia per quanto riguarda il recesso in caso di quotazione che per la vendita sono già stabiliti i criteri di prezzo.

GIANNI DONATELLA SANTO VERSACE

Numeri
Versace ha chiuso l'esercizio 2013 con un fatturato di 479,2 milioni di euro, in aumento del 17,2% sull'anno precedente. L'Ebitda (margine operativo lordo) è cresciuto del 59,7% a 71 milioni, mentre l'utile netto del 27,6% a 10,9 milioni di euro.

Le vendite nei negozi gestiti direttamente sono state pari a 267,6 milioni (+19%). Il wholesale ha invece raggiunto i 174,1 milioni (+16,7%). In incremento anche le royalty, a 37,5 milioni (+7,4%), trainate dai profumi (+23,6%) e dagli orologi (+16%). I mercati di maggior espansione sono stati quello americano (+32% le vendite retail) e asiatico (+18,5%, con la Greater China che ha fatto +13%). Le vendite retail in Europa sono salite dell'8%.

VERSACE

«Anche il 2013 - ha commentato l'amministratore delegato Gian Giacomo Ferraris - è stato un anno di grande successo, che ha registrato fatturato e utili molto consistenti per il quarto anno consecutivo. Abbiamo avviato il 2014 con grande slancio e ci aspettiamo un ulteriore risultato positivo».

A fine febbraio è stato annunciato l'ingresso di Blackstone (attraverso un aumento di capitale da 150 milioni di euro più acquisto diretto di azioni per 60 milioni), che ha valorizzato Versace un miliardo di euro. L'obiettivo è accelerare la crescita e poi arrivare in Borsa.

 

MAURO ICARDI INFIERISCE SU MAXI LOPEZ TWITTANDO UNA FOTO IN CUI MIMA LE CORNA

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Da "Gazzetta.it"

TIFOSI DELLA SAMP CONTRO ICARDI

Samp-Inter ancora non è finita. O meglio: il fischio finale era arrivato, ma Mauro Icardi forse non l'ha sentito. E dunque continua il suo duello a distanza con il connazionale, collega e comunque rivale Maxi Lopez, doriano ma soprattutto ex marito della sua compagna Wanda Nara.

A colpi non più di gol (già domenica il confronto si era chiuso sul 2-0 a suo favore) o di strette di mano mancate (1-0 per Maxi), e nemmeno di prestazioni collettive (l'Inter ha vinto 4-0). No, Maurito ha spostato il confronto su Twitter, uno dei suoi "campi" preferiti. Dove ha postato una foto della sua mano che fa le corna, una provocazione nei confronti del rivale si direbbe, vista anche la domanda che accompagna il tweet ("Perché Wandita mi fa guidare così"?).

ICARDI E IL TWEET SFOTTO CON IL MUFLONE E LE CORNA

Non solo: Maurito ha postato altre due foto: una che lo ritrae in treno con Wanda e Valentino, primogenito della compagna e di Maxi Lopez, e una che lo immortala di spalle mano nella mano con lo stesso bambino mentre arriva ad Appiano Gentile. Il centravanti, infatti, ha raggiunto l'allenamento in compagnia del figlio di Lopez. Insomma, pare che Icardi voglia proprio stravincere...

 

LESULTANZA DI ICARDI A GENOVA DOPO IL GOL ALLA SAMP LESULTANZA DI ICARDI A GENOVA

REGGIO COME REGGIA DI BOSS, POLITICI E MANAGER MASSONI NELL’INCHIESTA DI CAFIERO…

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Goffredo Buccini per ‘Il Corriere della Sera'

Appena uscito di galera, Paolo De Stefano guardò il figlio Peppe, allora adolescente: «Papà deve farsi un giro nei negozi per pagare un po' di debiti», gli disse. Alla fine del giro, aveva sborsato una sessantina di milioni (lire d'allora) in scarpe: tutte quelle che i reggini avevano comprato «a nome della famiglia» mentre lui stava dentro. «Da oggi chisti camminano sulle scarpe nostre», spiegò infine il capomafia all'erede: era il 1982, per molti don Paolino era il vero sindaco.

IL PROCURATORE CAFIERO DE RAHO E A DESTRA IL PM ALESSANDRA CERRETI

Welfare nero o mitologia da malacarne che sia, in fondo cammina ancora così, con le scarpe dei De Stefano e soci, questa città paradossale: povera e tuttavia zeppa di quattrini illegali, senza lavoro ma attivamente al servizio delle cosche, col mare più bello d'Italia ma stuprata in ogni muro abusivo dal «rustico reggino», che qui è un perverso stile architettonico coi suoi mattoni a vivo, i suoi piloni abbandonati a metà.

Federico Cafiero de Raho, dal suo ufficio, contempla il nuovo palazzo di giustizia fermo da un anno, vuoto, in attesa di diventare fatiscente. Proprio lì, di fronte, si dovevano spostare i magistrati «ma il Comune ha usato i soldi in altro modo», dice il procuratore, forse con sottile ironia partenopea (viene da Napoli, dove ha smantellato i clan Casalesi) perché l'uso che il Comune ha fatto dei soldi, qui, è appunto uno dei tasti dolenti:

FEDERICO CAFIERO DE RAHO

170 milioni di buco; il suicidio misterioso della dirigente Orsola Fallara, braccio economico dell'allora sindaco Peppe Scopelliti; la fresca condanna di Scopelliti (sei anni per falso e abuso) frattanto diventato governatore della Regione; lo scioglimento per mafia del consiglio comunale con una relazione agghiacciante dei commissari che, pur rivolta al Comune guidato dal pdl Demetrio Arena, pesa come un macigno soprattutto sulla gestione scopellitiana, fino al 2010, tra assessori e consiglieri collusi, dipendenti infedeli, dirigenti e società partecipate in mano alle cosche, feste con boss, appalti combinati. Qui l'unica azienda che pare funzionare è la ‘ndrangheta.

«Cimitero d'opere pubbliche», scriveva Piovene della Calabria anni Cinquanta. Quasi tutto è ancora lasciato a metà o abbandonato (tranne il Pil delle cosche che fa una cifra tonda di 50 miliardi l'anno: e stavolta sono euro): il Palasport, dopo la morte di un giovane operaio, il Roof Garden (pieno centro) dopo una sparatoria tra capi delle famiglie, il fascinoso hotel Miramare, in attesa di essere venduto all'asta, e persino il vecchio Papirus, dove un giovanissimo Scopelliti andava a ballare sotto l'occhio benevolo del mafioso Nino Fiume, ora pentito e un tempo suo elettore.

Giuseppe Scopelliti

Cafiero de Raho pensa al voto e ha un sobbalzo: «Mi spaventano le elezioni». In che senso? «Quando andrà via il commissario straordinario, si dovranno fare. E qui non c'è libertà, "loro" spostano la vittoria. Che razza di elezioni saranno?». La procura di Cafiero lavora da un anno a un'inchiesta delicata: sugli Invisibili. Inchiodati i quattro capi mafiosi della supercosca reggina - tra cui Peppe De Stefano, il figlio di don Paolino - e stabilito col processo Crimine il principio dell'unicità della ‘ndrangheta, nel mirino c'è quella «stanza di compensazione» dove si disegnano le grandi strategie. «C'è chi può decidere se accendere i riflettori su una parte o l'altra dello Stretto, magari per star tranquilli a Palermo mettono una bomba a Reggio».

Insomma mafiosi, politici e professionisti, manager e immancabili massoni coperti avrebbero un ennesimo tavolo di confronto qui, a Milano o in Svizzera, chissà; tra le ipotesi di lavoro ci sarebbero anche l'eversione e la violazione della legge Anselmi. Detta così, pare la Piovra.

Ma Cafiero spiega che l'inchiesta è solida e che «in sei mesi si vedranno effetti giudiziari», difendendo il lavoro del suo giovane pm di punta, Giuseppe Lombardo. Nonostante gli sforzi del capo («qui si lavora tutti assieme»), i pm sono divisi, in un altro processo si revoca in dubbio l'affidabilità degli stessi investigatori usati da Lombardo: nel grumo malato, come sempre, giudici, spioni, ufficiali, pentiti.

SCOPELLITI

Nicola Gratteri ha spiegato che non c'è più la zona grigia: o è mafia o non lo è. Monsignor Nunnari, presidente della Cei calabrese, annuncia lezioni antimafia per i suoi seminaristi, mentre due sacerdoti reggini finiscono sotto inchiesta per eccesso di pietà cristiana verso i boss. «La 'ndrangheta si è fatta impresa, e qui abbiamo appena perso altri diecimila posti di lavoro», dice Lucio Dattola, presidente della Camera di commercio. Gli appalti pubblici sono in fondo per le cosche il modo pulito con cui fare arrivare, tramite le istituzioni, soldi alla propria base sociale: come le scarpe trent'anni fa. La spazzatura (con le sue crisi cicliche) è ovviamente affare di mafia, il percolato finisce dove capita, pure sulla nuova gestione commissariale la procura sta dando un'occhiata attenta.

DROGA NDRANGHETA

Per chi non si piega, incendi, e bombe. L'ultima un mese fa, contro una salumeria famosa, a due passi dal Municipio. «In pochi giorni abbiamo riaperto, non voglio darla vinta a ‘sti vigliacchi», dice Arianna Romeo, la figlia del padrone. Qui l'eversione va a braccetto con la ‘ndrangheta dal tempo dei Boia chi molla, il 1970 fu l'anno decisivo nella rovina di Reggio.

Peppe Scopelliti da sindaco decise di marcare lo splendido lungomare voluto dal compianto Italo Falcomatà con una lapide in onore di Ciccio Franco, leader della rivolta. Falcomatà era amato anche dalla destra, ha insegnato latino a generazioni di reggini prima di salire in municipio, i marescialli dell'Arma hanno la sua foto dietro la scrivania. Scopelliti s'era conquistato con feste e concerti un consenso del 70 per cento, ora è un re caduto e angosciato dall'ombra shakespeariana di Orsola Fallara, che tanti sospettano si sia sacrificata per lui. «Nella relazione dei commissari sul Comune ci sono falsità», s'avventura.

NDRANGHETA

Affermazione grave. «Me ne assumo la responsabilità! La Bindi mi convochi all'Antimafia e io porterò le carte sulla borghesia mafiosa». Perché non va in procura? «A suo tempo». Le dimissioni - per ora solo annunciate - sono inevitabili, la candidatura alle Europee miraggio di rilancio. Il governatore è ormai chiacchierato, pure i mafiosi ne parlano: lui giura di essere vittima delle cosche, di combatterle da quando, giovane missino, lo chiamavano «Peppe O' Dj».

Calabria

Vai a sapere. «Il nostro cuore è perverso, abbiamo affidato la nostra sicurezza a quattro boss», tuona Giovanni Ladiana, superiore dei Gesuiti, predicatore dal ceffone evangelico. Qui capita che un imprenditore trovi il coraggio di mandare al diavolo gli esattori del pizzo, resista a un attentato, vada sotto tutela: e che poi sua figlia si metta assieme a un nipote (incensurato) dei De Stefano. «Nulla è come appare», prima regola di Reggio. E verso sera Scopelliti si fa vivo al telefono con una richiesta impossibile: «Posso cambiare quello che ho detto?».

NICOLA GRATTERI

 

 

PAZZI DI “MAD MEN” - IERI IL PRIMO EPISODIO DELL’ULTIMA STAGIONE: SUCCEDE POCO

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Andrea Salvadore per il suo blog, www.americanatvblog.com

E' iniziata l'ultima stagione, la settima, di MAD MEN, divisa in due blocchi di sette puntate, distillati in due anni.

Nella nuova prima puntata e' successo poco, e' andata in onda una ripresentazione di Don, Megan, Roger, Joan, Peggy, pronti, via, partiti.

Nessuna serie televisiva ha mai avuto un'influenza simile sulla moda, lo stile, il costume come Mad Men. La rilettura degli anni 60 attraverso le storie di chi ha lavorato a Madison Avenue ci ha fatto spesso guardare ai dettagli più che alla narrazione. Ci siamo innamorati di interni, mobili, abiti, colori e, a volte, questo ci e' bastato. Non importa il perche', ognuno ha il suo e tutti siamo pazzi degli anni 60, anche quelli che non erano ancora nati.

L'industria ci ha navigato dentro. Ed ecco perche' oggi ci siamo trovati a guardare a questa nuova prima puntata come ad una visita ad una mostra del Guggenheim. Anche quando lo show non sta in piedi, la discesa circolare del museo e' sempre un viaggio meraviglioso.

mobili in vendita che sfruttano limmagine madmen

Matthew Weiner, l'autore showrunner, conosce bene l'arte della manutenzione delle sfumature, degli indizi e ci dispensa, come a dei tossici, pillole di una copertina di un testo classico, di un logo di una compagnia aerea scomparsa, di una marca di sigarette alla menta sepolta nel tempo.

Milton Glaser autore della campagna madmen ultima stagione

La campagna per questa stagione e' stata così' affidata a Milton Glaser, 84 anni, l'autore del logo I ♥ NY. Glaser ha realizzato quel manifesto che a New York abbiamo visto ovunque e che ci butta dentro un Mad Men psichedelico, anteprima di Woodstock, che nel 1969 dovrebbe chiudere la serie. Ancora una volta e' la confezione che ci rapisce.

madmen

Alla fine delle 92 ore di Mad Men, l'anno prossimo, quando ripenseremo alla serie probabilmente ci interrogheremo sull'evoluzione d Don, Peggy, Joan, Peter, Betty, Roger, Sally perche' questa e' la metrica che si applica ad un romanzo popolare come Mad Men. Come sono stati sviluppati i protagonisti, le loro storie, quanto sono rimasti come erano, immobili. Quando alla fine, la nuvola della perfetta ricostruzione da film storico sara' evaporata ci chiederemo se Don Draper e' diventato un'altra persona.

Questo in generale e' quello che ci riguarda quando entriamo dentro una storia che ci appassiona. Siamo capaci di imparare dagli errori o semplicemente dalle esperienze ? Don, killer seriale di belle donne, finisce al bancone di PJ Clarke's a bere, fumare o si modifica, non necessariamente in un bravo padre di famiglia, ma in qualcosa di diverso ?

Matthew Weiner ci ha detto, in una delle tante interviste concesse durante questo lancio della serie, che Don non deve necessariamente smettere di bere, come di continuare a vivere come ha vissuto finora. Don e' dentro il caos della fine degli anni 60 e lo specchia, lo annusa, lo riflette.

La grande storia che scorre sotto tutto Mad Men e' un filo teso fondamentale per Weiner. Non e' colore, rumore di fondo. E' l'autentica storia di Mad Men che, per questo, e' grande romanzo popolare. I figli desiderati e non di Betty, Joan, Peggy sono l'altra faccia della confusione di Don. La ribellione di Sally, pure simbolica di quello che accade fuori, all'esterno di Madison Avenue, non e' semplice conflitto genitori-figli. Tutto e' storicizzato ma anche senza tempo. Come accade alle torte riuscite perfettamente. Che devono essere belle da vedere e buone da mangiare. Opere d'arte.

banana republic collezione madmen jpegmad men ultima stagione

 

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