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1. SIMBOLO DELLA PREVALENZA DEL CAFONE O ANTAGONISMO ESTETICO INCISO SUL CORPO? 2. L’ANTROPOLOGO NIOLA: “I MILIONI DI PERSONE CHE OGGI SI TATUANO CERCANO DI FAR EMERGERE LA LORO STORIA, LA PERSONALITÀ, I GUSTI, GLI AFFETTI. GESTO DI CHIRURGIA PITTORICA. SOCIALIZZAZIONE ESTETICA DEL SÉ. IL CORPO COME UN BLOG ILLUSTRATO“ 3. LE CONVENTION DEL TATUAGGIO, COME QUELLA ALL’ERGIFE DI ROMA, GRANDE OCCASIONE PER METTERE IN SCENA UNA SOTTOCULTURA CHE CONTIENE ARTE DI STRADA, ARTIGIANATO, ABBIGLIAMENTO, GRUPPI MUSICALI, LE SESSIONI DI BURLESQUE E BREAKDANCE, EDITORIA E DANZA, I CONTEST PER I FANATICI DEL WRITING

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Tatuami, legami, Spogliami

Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
Video di Veronica Del Soldà per Dagospia

di Micol Pieretti per Il Messaggero

Tribale, giapponese, ritrattistico. Ce n'è per tutti i gusti alla XVI International Tattoo Expo Roma, la convention del tatuaggio che si è aperta all'Ergife Palace Hotel e che raduna ogni anno quasi quindicimila curiosi. Più di cinquecento tra i migliori artisti del disegno sulla pelle provenienti da ogni angolo del pianeta sono a lavoro nei quattrocento stand allestiti per l'occasione.

Uomo tatuato Tatuatrice

Fra questi, ci sono mostri sacri come Horitoshi, maestro della tecnica millenaria dell'incisione a mano; il mago del ritratto iperrealista Michele Turco, che disegna i volti dei divi del cinema; Pili Mo'o e il suo disegno tradizionale polinesiano, che sceglie lui stesso per il proprio cliente dopo aver scambiato con lui quattro chiacchiere ed essersi fatto un'idea della sua personalità.

Tatuatrice Giapponese

Ma non sono solo i tatuaggi l'attrazione che anima l'Ergife. Non mancano le esibizioni di contorsionismo, gli show acrobatici al trapezio, le sessioni di burlesque e breakdance, l'hula hoop, i contest per i fanatici del writing.

Tatuatrice

Ciliegina sulla torta di queste giornate urban style sono i concerti live: si parte stasera con il rockabilly dei Fat Cats, si prosegue domani con il trio di Marco di Maggio, e si chiude in grande domenica con il punk spruzzato di folk degli Andrea Rock Trio.

A dare il benvenuto alla nuova edizione della Expo, a pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo disco "...Senza Er", è arrivato il capitolino doc Tommaso Zanello, in arte Piotta. Il rapper "de Roma", che non poteva mancare ad un evento così underground, ha salutato i tanti fan e ci ha raccontato volentieri la storia del suo unico tatuaggio, un ghirigoro sul piede.

 


LE “CONVERGENZE PREVENTIVE” DI ENRICO E ANGELINO: ASSE DI GOVERNO PER ISOLARE I PADRINI POLITICI

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Fabio Martini per "la Stampa"

Sono le 8,45 e c' è profumo di caffè nella saletta di Palazzo Chigi dove Enrico Letta ospita i capigruppo della "sua maggioranza" per la riunione destinata a rendere stabile una sorta di Ufficio politico dell'esecutivo, il luogo dove si comporranno urti e istanze contrapposte. Il presidente del Consiglio ha appena spiegato a grandi linee la filosofia dell'iniziativa, preannunciando summit periodici ed invitando i capigruppo a fare da «sentinelle» e, nei limiti del possibile a «sminare problemi che si dovessero creare».

LETTA ALFANO BONINO

Subito dopo prende la parola il vicepresidente del Consiglio, Angelino Alfano, scandendo concetti chiari: qui siamo tutti professionisti della politica, sappiamo che per ostacolare o far cadere un governo basta mettere in campo capziosità, distinguo e quindi è giusto parlarci chiaro e capirci, prima che emergano sorprese e difficoltà. Un incipit tosto, col dono della chiarezza e che colloca subito Alfano, come è naturale che sia, tra i portabandiera del nuovo esecutivo.

ALFANO GIURA AL QUIRINALE CON LETTA E NAPOLITANO

Ma non è finita qui. Letta e Alfano sono seduti uno a fianco dell'altro e mentre parlano, si citano e si scambiano la parola, chiamandosi per nome: «Come ha detto Enrico», «come ha spiegato Angelino». Presidente e vicepresidente fanno coppia, c'è feeling tra loro e non fanno nulla per nasconderlo. Quarantasei anni Letta, quarantatre Alfano, i due si giocheranno fino in fondo la partita della vita.

Il messaggio subliminale non sfugge a buona parte dei capigruppo, tra i quali c'è gente che mastica di politica. Tra i sette capigruppo ce ne sono ben quattro che hanno fatto la gavetta nella Dc: Pino Pisicchio, del Centro democratico; Lorenzo Dellai e Susta di Scelta Civica, ma anche Renato Schifani, presidente dei senatori Pdl. Per non parlare di Dario Franceschini, ex ragazzo di Zac, anche lui presente alla riunione. E si sono fatti le ossa nella Dc soprattutto loro due, i leader Letta e Alfano

Lettura del Messaggio di Alfano

Esemplari e non apologetiche le parole di Calogero Mannino, ex ministro Dc: «Osservando Letta, Alfano e Franceschini sembrerebbe di aver difronte la fotografia del movimento giovanile Dc del 1991, ma la comune militanza appartiene al loro passato, nessuno si autodefinisce democristiano e gran parte delle loro scelte successive rappresentano la negazione di quella esperienza comune. Eppure, chi è stato nella Dc ha interiorizzato metodologie e logiche, quel carattere che Gobetti identificava nel cattolico impegnato in politica: il concretismo».

ENRICO LETTA ALLA CAMERA TRA ALFANO E BONINO

Un concretismo riveduto, corretto e modernizzato che porterà domani Letta ed Alfano a guidare le danze nell'abbazia sconsacrata di Spineto, dove i ministri si ritroveranno per conoscersi meglio, «fare spogliatoio», come ha spiegato nel suo tweet di apertura il presidente del Consiglio. Ed è in quella occasione che, per dirla con le parole di uno dei ministri di punta del nuovo esecutivo, «prenderà forma il partito del governo».

Alfano Giorgino e Enrico Letta pregano con Salvatore Martinez - da Tempi

Non un partito vero e proprio, perché per quello - se mai verrà - serve tanto tempo. Ciò che serve subito sono risultati tangibili ed immediati da parte di questo governo. Una mission complicata Letta e Alfano - tra palazzo Chigi e Spineto - stanno cercando di imbastire un patto, un "partito" trasversale, con basi nei due ex partiti guida, Pd e Pdl.

E per cementare quel che ancora è molto friabile, ieri è stato messo il primo mattone, quel che Pino Pisicchio definisce «un metodo nuovo, quello delle convergenze preventive». E spiega: «Un metodo indispensabile rispetto ai punti di frizione: questa è una maggioranza molto articolata, formata da forze che fino a questo momento sono state una contro l'altra e da un Parlamento con il 64% di turnover. I problemi non mancano, ma ora c'è un luogo che consentirà un percorso normativo più fisiologico e condiviso».

 

 

DI VIMINALE IN PEGGIO: L’EX VICECAPO DEI SERVIZI NEI GUAI PER I 10 MILIONI SPARITI

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Guido Ruotolo per "la Stampa"

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Un buco di dieci milioni di euro. Anzi di «una cifra da definire», come è riportato nel decreto di perquisizione. Anzi che no, visto che proprio ieri è stato ritrovato in Procura un esposto arrivato dal ministero dell'Interno che denunciava e quantificava il buco in dieci milioni di euro.

Un furto, una truffa, un ammanco? Nulla di tutto questo, anzi sì, perché i reati contestati all'indagato eccellente, il prefetto Francesco La Motta, sono peculato per distrazione e corruzione. Solo che le indagini probabilmente dimostreranno che quel buco, quella voragine di dieci milioni di euro è il prodotto di un «cattivo investimento». O no?

Che confusione. Procediamo con ordine. A Napoli c'è una inchiesta sul riciclaggio del clan Polverino, clan di camorra. In quell'inchiesta è coinvolto anche il prefetto La Motta, al quale viene contestata anche l'aggravante dell'articolo 7, e cioè di aver favorito l'associazione camorristica.

Uno stralcio di quella inchiesta viene mandata a Roma, al pm Paolo Ielo. E quello stralcio riguarda il buco di dieci milioni di euro denunciato al Fondo Edifici di Culto (Fec) del Viminale.

Il Fec è un ente dotato di personalità giuridica e gestisce il patrimonio concordatario costituito da 700 chiese di grande interesse storico e artistico, tra cui Santa Maria del Popolo (Roma), Santa Chiara (Napoli), Santa Croce (Firenze), Santa Caterina d'Alessandria (Palermo), oltre tutte le opere d'arte custodite nelle chiese.
Dal 2003 alla fine del 2006 il prefetto La Motta è stato direttore generale per l'amministrazione del Fec, prima di essere nominato vicedirettore vicario del Sisde diventato poi Aisi, il servizio segreto interno.

Gentiluomo di sua Santità, La Motta ebbe diversi riconoscimenti dal Vaticano e dall'allora ministro dell'Interno prima che il suo nome comparisse, nel 2011, nell'inchiesta sulla P4, collocandolo alla corte del faccendiere piduista Luigi Bisignani. E di nuovo il suo nome conquistò la ribalta dei giornali del gossip quando si venne a sapere che suo figlio Fabio era il fidanzato dell'europarlamentare berlusconiana Barbara Matera.

Tre giorni fa, gli uomini del Ros dei carabinieri hanno perquisito l'abitazione del prefetto (in pensione da pochi mesi) e i suoi uffici all' Aisi, l'ex Sisde, con il quale aveva un rapporto di consulenza-collaborazione. Da quello che emergerebbe dalle indagini, il prefetto La Motta avrebbe investito quei milioni del Fec in una finanziaria svizzera. Con il consenso dell'Ufficio. Solo che, all'improvviso, quella finanziaria si è prosciugata. Insomma, quei soldi investiti sono scomparsi.

Che fine hanno fatto i dieci milioni di euro sottratti all'amministrazione dei Fondi Edifici di culto? Il pm Paolo Ielo e gli investigatori del Ros al comando del colonnello Casagrande, stanno aspettando gli esiti di una rogatoria con la Svizzera, per capire il ruolo della finanziaria e i movimenti dei capitali del Fondo Edifici del culto.

Dopo lo scandalo dell'inchiesta napoletana sulla gestione dei Fondi per la sicurezza, che portarono alle dimissioni del vicecapo vicario della Polizia, il prefetto Nicola Izzo, indagato da Napoli (gli atti sono finiti a Roma), adesso un nuovo ciclone si abbatte sul Viminale.

 

 

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“FATE SCHIFO”: TRAVAGLIO CONTRO IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

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Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano"

Siccome non c'è limite alla vergogna, ieri il Coniglio Superiore della Magistratura, già organo di autogoverno della medesima e ora manganello politico per mettere in riga i "divisivi" che disturbano l'inciucio, ha condannato alla "censura" il pm minorile di Milano Anna Maria Fiorillo. Ha insabbiato un'indagine? È andata a cena con un inquisito? È stata beccata al telefono con un politico che le chiedeva un favore?

No, altrimenti l'avrebbero promossa: ha raccontato la verità sulla notte del 27 maggio 2010 alla Questura di Milano, quando Karima el Marough in arte Ruby, minorenne marocchina senza documenti né fissa dimora fu fermata per furto e trattenuta per accertamenti. Quella notte, per sua somma sfortuna, era di turno la Fiorillo che, per sua somma sfortuna, è un pm rigoroso che osserva la Costituzione, dunque non è malleabile né manovrabile.

sede csm consiglio superiore della magistratura

Al telefono con l'agente che ha fermato la ragazza, dice di identificarla e poi affidarla a una comunità di accoglienza, come prevede la legge. Mentre l'agente la identifica e cerca una comunità (ce n'erano parecchie con molti posti liberi), viene chiamato dal commissario capo Giorgia Iafrate, a sua volta chiamata dal capo di gabinetto Pietro Ostuni, a sua volta chiamato dal premier Berlusconi direttamente da Parigi.

Il CSM - Consiglio Superiore della Magistratura

L'ordine è di "lasciar andare" subito la ragazza perché è "nipote di Mubarak" e si rischia l'incidente diplomatico con l'Egitto. Così la Questura informa la pm che Ruby è stata affidata a tale Nicole Minetti, "di professione Consigliere Ministeriale Regionale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri" (supercazzola testuale).

FIORILLO

"Ciò - annoterà la Fiorillo nella sua relazione - suscitò in me notevoli perplessità che esternai con chiarezza, sottolineando in modo assertivo l'inopportunità di un affidamento a persona estranea alla famiglia senza l'intervento dei servizi sociali. Non ricordo di aver autorizzato l'affidamento della minore alla Minetti". Cioè, spiegherà la pm, "ricordo di non averlo autorizzato".

Appena la cosa finisce sui giornali, il procuratore Bruti Liberati si precipita a difendere gli agenti con una nota molto curiale, anzi quirinalesca: "La fase conclusiva della procedura d'identificazione, fotosegnalazione e affidamento della minore è stata operata correttamente". Cioè anticipa l'esito di un'indagine in corso. Il Pdl esulta: visto? Il caso Ruby non esiste. Il ministro dell'Interno Maroni si presenta in Parlamento e mente spudoratamente: che Ruby fu affidata alla Minetti "sulla base delle indicazioni del magistrato".

La Fiorillo, sbugiardata dal bugiardo su tutti i giornali e tv senza che nessun superiore la intervenga, si difende da sola e dichiara: "Le parole del ministro che sembrano in accordo con quelle del procuratore non corrispondono alla mia diretta e personale conoscenza del caso. Non ho mai dato alcuna autorizzazione all'affido della minore".

Anna Maria Fiorillo

Poi chiede al Csm di aprire una "pratica a tutela" non solo sua, ma della magistratura tutta, contro le menzogne del governo. Ma il Csm archivia la pratica in tutta fretta senza neppure ascoltarla: non sia mai che, con le sue verità "divisive", turbi il clima di pacificazione nazionale. Al processo Ruby, forse per non smentire il procuratore, né l'accusa né la difesa chiedono di sentirla come teste. Provvede il Tribunale.

Ma intanto il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, lo stesso che convocò il procuratore nazionale Grasso su richiesta di Napolitano e Mancino per far avocare l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, avvia contro di lei l'azione disciplinare per aver "violato il dovere di riserbo". Cioè per aver osato dire la verità.

Ieri infatti il Pg Betta Cesqui che sosteneva l'accusa e ha chiesto la sua condanna non ha potuto esimersi dal dire che "la verità sulla condotta del magistrato è stata stabilita ed è stata data piena ragione alla sua ricostruzione dei fatti". Dunque il plotone di esecuzione del Csm l'ha punita con la censura. Guai a chi dice la verità, in questo paese di merda.

 

SALTANO I TAPPI DEL “DIVO”: IL GENERALE DEI SERVIZI MALETTI RICHIAMATO IN ITALIA DOPO LA MORTE DI ANDREOTTI

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Gianni Barbacetto e Andrea Sceresini per il "Fatto quotidiano"

Che strano. Per 17 anni il generale dei servizi segreti Gian Adelio Maletti è rimasto tranquillo nel suo "esilio" a Johannesburg, in Sudafrica. Proprio la notte dopo la morte di Giulio Andreotti, la giustizia italiana si è ricordata di lui e gli ha finalmente notificato l'ordine di esecuzione pena, per una condanna a 14 anni diventata definitiva quasi due decenni fa, nel 1996. Da oggi, Maletti è ufficialmente latitante.

GIULIO ANDREOTTI E ANNA MAGNANI

"Con Andreotti mi sono sempre scontrato", racconta al telefono il generale. "Ho sempre detto: finché è vivo, in Italia non mi fanno tornare. Se anche dovessi presentarmi volontariamente alla frontiera, mi caccerebbero via a calci". La sera del 7 maggio, il giorno dopo la scomparsa del Divo Giulio, una squadra di cinque poliziotti lo va invece a cercare al suo indirizzo romano. "È la casa di mia figlia. Lo sanno tutti che io da anni vivo in Sudafrica. Sono stati letteralmente gettati fuori casa da mio genero che ha detto che non poteva tollerare l'invasione di un'abitazione privata e che io vivo a Johannesburg, non a Roma".

GIULIO ANDREOTTI E ANNA MAGNANI

IL SID E LA FAIDA TRA L'ALA "AMERICANA" E QUELLA "FILO-ARABA"
Gian Adelio Maletti arriva al comando dell'ufficio D (il controspionaggio) del Sid (il servizio segreto militare), un paio d'anni dopo la strage di piazza Fontana. Appartiene all'ala dei servizi vicina agli americani e agli israeliani. Entra subito in contrasto con l'ala filo-araba e con Andreotti, che di quell'ala è il punto di riferimento politico. Il dossier più scottante che gestisce è quello su piazza Fontana, naturalmente: depista l'inchiesta giudiziaria - secondo quanto dice una sentenza definitiva - facendo fuggire all'estero alcuni indagati (Giovanni Ventura, Guido Giannettini, Marco Pozzan).

TOTTI E ANDREOTTI

Nel 1981 il suo nome viene trovato negli elenchi della loggia P2. Processato, è uno dei pochissimi che esce dal dibattimento P2 con una condanna: a 14 anni, non per l'appartenenza alla loggia segreta di Licio Gelli, ma per rivelazione di segreti di Stato e sottrazione di atti e documenti concernenti la sicurezza dello Stato. Gli viene contestato di aver fatto uscire dagli archivi dei servizi un dossier, chiamato Mi.Fo.Biali: conteneva la storia segreta di deviazioni istituzionali e ruberie di Stato attorno all'enorme business del petrolio comprato dalla Libia.

Qualcosa di quelle ruberie viene alla luce anni dopo, quando i vertici (andreottiani) della Guardia di finanza sono coinvolti nello "scandalo dei petroli". Nella vicenda, scrivono i giudici, "è evidente l'interesse di Giulio Andreotti, che nella sua qualità di ministro della Difesa aveva autorizzato lo spionaggio politico utilizzando mezzi illegali".

Il dossier è formato dal Sid nel 1974-75. Negli anni seguenti esce dagli archivi del Nod (una struttura del servizio) e invece di approdare nelle cassaforti di Forte Braschi, sede del Sid, plana sulla scrivania del giornalista Mino Pecorelli, che lo pubblica in parte sul suo giornale, Op. Maletti viene condannato in primo grado nel 1994.

Mino Pecorelli

La sentenza diventa definitiva nel 1996. Il difensore del generale, l'avvocato Michele Gentiloni Silverj, tenta di ottenere la revisione del processo dopo che un ufficiale dei servizi, il colonnello Antonio Viezzer, rivela di essere stato lui a dare il dossier al mitico capitano Antonio Labruna, che poi lo passa a Pecorelli. Revisione respinta , perché restava intatta la catena di comando: sopra Labruna e Viezzer, c'era il capo dell'ufficio D, il generale Maletti.

"Ma quella condanna definitiva del 1996 non è mai stata eseguita", dice oggi l'avvocato Gentiloni. "Si svegliano adesso, 17 anni dopo. In una vita di avvocatura penale, non avevo mai visto una cosa simile". Dal Sudafrica, il vecchio generale (ha compiuto 92 anni) negli ultimi tempi ha fatto due volte capolino nei processi italiani:in quello di Milano su piazza Fontana (in cui era imputato e da cui è uscito assolto); e in quello di Brescia sulla strage di piazza della Loggia (in cui era teste).

Ora sa di non avere più nulla da perdere. Alla sua età difficilmente sarà rinchiuso in una cella. È l'ultimo testimone vivente di una stagione che nasce in piazza Fontana e si chiude con la scoperta degli elenchi P2 e poi di Gladio. Adesso che Andreotti non c'è più, è saltato l'estremo tappo politico su quella stagione. Se Maletti decidesse di parlare, potremmo riscrivere la storia d'Italia dagli anni Settanta ai Novanta.

Pecorelli

"La grazia? Il senatore disse: meglio che resti a Johannesburg"
"Sì, Andreotti non amava il mio assistito", racconta l'avvocato Gentiloni. "Quando provammo a chiedere la grazia al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per farlo tornare in Italia, domandammo un sostegno ad alcune personalità. Io chiesi anche ad Andreotti che, gentilissimo, mi rispose: ‘Avvocato, per me il generale sta bene in Sudafrica'".

A leggere l'ordine di esecuzione della pena, firmato dal pubblico ministero di Roma Nicola Maiorano, si scopre che la pena da scontare, dopo condoni e indulti, resta di sei anni. Il pm ordina "di procedere all'arresto e alla traduzione del condannato presso l'istituto di detenzione più vicino". La data in calce è 18 marzo 2013, dunque prima della morte di Andreotti. Ma comunque 17 anni dopo la sentenza.

"Eipoliziottisisonomossipropriolaseradopoche Giulio se n'è andato da questo mondo, portando con sé i suoi tanti segreti. Ora spero che i suoi archivi e i suoi diari vengano resi pubblici", sillaba Maletti. "Guardi, io sono convinto che un archivio ci sia. Esiste, non c'è dubbio. Non so dove possa essere e che cosa contenga, anche se immagino che si tratti di un contenuto molto interessante.

Andreotti sapeva tutto e aveva certamente informatori in Italia, in Vaticano e in ambienti internazionali. Alcune cose sono state forse ibernate, a causa dell'esistenza in vita di Andreotti. Adesso che è morto, potrebbero essere scongelate. Non dubito che si sia costituito un archivio privato, come giustificano il carattere e la lunga carriera dell'uomo. È forse lì che potrebbero trovarsi nuovi importanti elementi o informazioni. Ma chi oggi ha interesse a cercarli e soprattutto la facoltà di farlo? E poi, se quelle carte esistono, dove saranno finite? A ogni modo, mi creda: qualche cosa verrà fuori, non c'è dubbio".

 

L’ULTIMA DIFESA DEL BANANA: CONTRO LA BOCCASSINI LA BOCCA DI FUOCO DI CANALE 5

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Mattia Feltri per "la Stampa"

Se davvero di guerra si tratta, Silvio Berlusconi tira fuori l'arma segreta e anche piuttosto anomala: domenica sera - in contemporanea con la caccia alla Champions League del suo Milan - gioca d'anticipo sull'arringa del sostituto procuratore Ilda Boccassini prevista per l'indomani mattina al tribunale di Milano.

Una mossa imprevedibile e sfrontata: Canale 5 trasmetterà alle 21,10 qualcosa di ibrido fra la docufiction, il programma d'approfondimento e il talk show sulle fiammeggianti notti di Arcore, e in particolare sul caso di Karima El Mahroug, Ruby Rubacuori per i patinati. Il titolo dello speciale, non proprio minimalista, ha il compito di spiegare l'eccezionalità dell'operazione: «La guerra dei vent'anni: Ruby, ultimo atto».

Ecco, due decenni di cannoneggiamento giustificherebbero lo stupefacente spiegamento della rete ammiraglia che nel tempo, col suo telegiornale e le trasmissioni politiche, ha (quasi) sempre mantenuto una orgogliosa equidistanza. Il lavoro sporco, ma onestamente sfacciato, toccava a Emilio Fede e a qualche comizio azzurro mandato in onda integrale nelle serate di Retequattro.

banana

Ora si cerca di bilanciare le cronache dei giornali - abbondanti, anche un po' guardone e povere di dubbi - con la potenza di fuoco di Canale 5. Un'offensiva di cui si è saputo qualcosa soltanto ieri, due giorni prima, e che precederà di poche ore la nuova manifestazione dei parlamentari del Pdl, convocati per lunedì mattina in un hotel milanese di piazza Fontana.

processo ruby Bele n Rodriguez il suo avvocato e lavvocato di Berlusconi Niccolo Ghedini

Il piccolo pregiudizio - si dovrà valutare domenica sera l'equilibrio del prodotto - nasce non soltanto dal perentorio titolo, ma anche dalla lettura del comunicato stampa con cui si annuncia l'evento: «L'obiettivo è riepilogare e rendere comprensibile al grande pubblico l'intricata trama, degna di un avvincente legal thriller, iniziata la notte del 27 maggio 2010 (quando Ruby viene fermata a Milano e l'allora premier telefona in questura raccomandando un po' d'attenzione per «la nipote» di Mubarak, fatto per il quale deve rispondere di concussione, ndr) e proseguita fino a oggi».

ruby BERLUSCONI BOCCASSINI FEDE MINETTI jpeg

Una prosa asciutta che però annuncia due interviste esclusive, a Berlusconi e Ruby medesima, cioè l'imputato e la parte lesa che tale non si considera. Il riassuntone, insomma, si preannuncia un po' asimmetrico. Oltretutto che non mancheranno le chicche di risvolto feticista, con immagini in esclusiva della «sala delle cene» (quelle cosiddette «eleganti») e della «taverna di Arcore», cioè due luoghi «su cui tanto si è fantasticato».

BERLUSCONI IN AULA AL PROCESSO RUBY

In effetti la «taverna di Arcore» sarebbe poi la celebre discoteca con palo della lap dance dove le ragazze offrivano travestimenti e svestimenti. E dove si sarebbe consumato il reato di induzione alla prostituzione minorile poiché Ruby vi avrebbe preso parte, con le conseguenze pratiche del caso, che peraltro lei nega, prima del compimento dei diciotto anni.

RUBY RUBACUORI EVA MENDES

Si sentiranno poi gli audio originali «dei funzionari e dei pubblici ministeri in servizio quella sera», oltre ad alcune deposizioni più care alla difesa: quella del pm dei minori Annamaria Fiorillo, del capo di gabinetto Piero Ostuni, del medico Alberto Zangrillo, dell'eurodeputata berlusconiana Licia Ronzulli, oltre che di Carlo Rossella, gran signore dalle amicizie trasversali (proprio ieri Dagospia pubblicava le sue foto in compagnia di Michele Santoro sullo yacht di Diego Della Valle).

SANTORO DELLA VALLE CARLO ROSSELLA copia

La trasmissione è presentata come «il primo esperimento di un genere legato al racconto d'attualità in prima serata che la rete intende proporre al pubblico con regolarità». Se ne arriveranno altre, si vedrà.

CARLO ROSSELLA DIEGO DELLA VALLE MICHELE SANTORO FOTO DA CHI

Ma per il momento è difficile non immaginarsi Berlusconi pronto a resistere fino all'ultima trincea, con tutti i mezzi e tutti gli uomini, proprio nel momento in cui la sfida pluridecennale sembra prossima alla definizione: stanno arrivando condanne una dietro l'altra, e nuove inchieste dall'aria non del tutto fumosa - come quella di Napoli sull'ex senatore Sergio De Gregorio che ammette di essere stato pagato per passare al centrodestra - procedono con rapidità.

Se, per innalzare una barricata ancora, al Cavaliere tocca di andare dritto e nella maniera più plateale dentro il conflitto d'interessi che è pesato così disastrosamente per l'intera Seconda repubblica, lui ci va senza battere ciglio. È la sua guerra, e non prevede prigionieri.

 

CHE SILENZIO A CLEVELAND: QUALCUNO NELLA “COMUNITÀ” SAPEVA E HA PREFERITO TACERE?

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Articolo di Rupert Cornwell per "The Independent" pubblicato dal "Fatto quotidiano" - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Che ne è stato della mitica comunità americana, di quel luogo idilliaco di amicizia e tranquillità dove non v'è problema che non possa essere risolto con spirito comunitario e dove mai nulla di brutto accade? L'inverosimile storia delle tre ragazze rapite e tenute prigioniere per dieci anni in una casa a Cleveland, Ohio, solleva molti interrogativi. È difficile credere che non abbiano mai avuto l'occasione di sfuggire al controllo di quell'unico carceriere, Ariel Castro, ponendo fine al loro tormento.

Non sarà che tra Castro e le sue vittime, Amanda Berry, Gina DeJesus e Michelle Knight, si era andata sviluppando una sorta di sindrome di Stoccolma? A dirla tutta, nemmeno la polizia ha fatto una gran figura avendo ignorato persino la segnalazione dei vicini che avevano visto una donna completamente nuda che camminava nel giardino a quattro zampe con un collare da cane al collo.

Ma il mistero più grande è quello dei vicini. Possibile che in così tanti anni nessuno abbia avuto il minimo sospetto e abbia fatto scattare l'allarme? In America cose del genere non dovrebbero accadere. Al limite le si può concepire nei centri urbani, ma certamente non nei quartieri residenziali dove si fa festa in strada, dove d'estate agli angoli delle strade i ragazzini vendono la limonata fatta in casa e dove tutti sanno tutto di tutti. Il concetto di "comunità" è un pilastro portante della società americana.

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Inoltre questo è il Paese nel quale hanno inventato il Neighbourhood Watch, una sorta di vigilanza di quartiere che - come si è visto nel caso del giovane Trayvon Martin ucciso in Florida con un colpo di pistola l'anno passato - qualche volta assume i contorni sinistri e inquietanti degli squadroni di vigilantes.

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Comunque sia, il senso di comunità è vivo negli Stati Uniti più che in altri Paesi occidentali. Anche chi abita a Washington crede di conoscere tutti i suoi vicini di casa. Il termine rassicurante e confortante di "comunità" permea l'intera società americana. Chiunque fa parte di una comunità: quella della scuola dei tuoi figli, quella dei disabili, quella dei gay e così via. Una comunità - a parte quella del quartiere in cui vivi - non si nega a nessuno. Spesso nelle comunità vigono regole molto severe. Chi abita in un condominio di villette non può dipingere la sua casa del colore che più gli piace e deve falciare l'erba del prato ogni settimana.

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E il sistema vale anche per la vita politica dominata dalle lobby e dai gruppi di interesse. Si parli di assistenza sanitaria o di riforma del sistema bancario o di controllo delle armi, ogni disegno di legge discusso al Congresso, altro non è che uno scontro tra gruppi di interesse, cioè a dire tra "comunità".

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La National Rifle Association è un'organizzazione che mette paura, ma è anche una "comunità di possessori di armi". Mi sono sempre chiesto se questo aspetto della cultura americana non sia mutuato dalla Germania. Spesso si sottovaluta il fatto che il gruppo etnico storicamente maggioritario negli Stati Uniti è quello tedesco e non quello italiano o irlandese o britannico. Ho vissuto in Germania e ricordo benissimo come fosse impensabile non rispettare le norme non scritte della comunità nella quale vivevi. Cleveland rappresenta in qualche misura la fine di una illusione.

cleveland NILDA FIGUEROA LA MADRE DI ANTHONY CASTRO

Se scopo delle comunità è quello di garantire la sicurezza dei cittadini , il caso di Cleveland testimonia un tragico fallimento. Nel quartiere abbastanza povero nel quale abitava Castro, nella zona ovest di Cleveland, vivono molte famiglie di origine portoricana. E tuttavia se avessero fatto il loro dovere e se la polizia avesse fatto il suo, gli orrori cui sono state sottoposte le tre ragazze sarebbero durati molto di meno.

Quando ci si trasferisce in un nuovo quartiere si ha la tendenza a pensare che i vicini siano tutte persone perbene. Se vedi qualcuno scavare un buca in giardino non ti passa per la testa che si tratti di un serial killer che sta facendo sparire il corpo della sua ultima vittima. Eppure in America ogni anno vengono rapiti oltre 100 bambini. E non di meno quando vedi una casa con le imposte sempre chiuse, non pensi che dietro quelle persiane potrebbe trovarsi uno dei cento bambini scomparsi e che in quel preciso momento forse lo stanno torturando o abusando.

GINA DEJESUS IL SOSPETTO RAPITORE ARIEL CASTRO CON UNA EX FIDANZATA DAVANTI ALLA PORTA CHIUSA CHE CONDUCE AL SEMINTERRATO ARIEL CASTRO

CHARLES RAMSEY, il cui colorito racconto di come ha tratto in salvo Amanda Berry lo ha fatto diventare una celebrità, sottolinea esattamente questo aspetto. Ramsey era vicino di casa di Castro da un anno e non aveva notato nulla di strano. Qualche volta Ramsey e i vicini avevano intravisto le ragazze, ma avevano dato per scontato che si trattasse delle nipoti.

Quanto al salvataggio, parlando alla tv ha detto: "Non sono un eroe; sono un cristiano e un americano". In altre parole, lo spirito di comunità secondo Ramsey è tutt'altro che morto. Parlando a un'altra emittente, Ramsey ha detto: "Ci conosciamo tutti. A Castro davo la posta quando tornava a casa e mi invitava a mangiare con lui quando faceva il barbecue. Non ho mai avuto il minimo sospetto".

Forse ci aspettiamo troppo dallo spirito di comunità. Anche nelle comunità più unite può accadere qualcosa di impensabile. La storia di Cleveland - orribile, incomprensibile, fortunatamente riscattata da un relativo lieto fine - prova che non possiamo dire di conoscere bene nessun essere umano, nemmeno quello che vive nella villetta accanto alla nostra. Così è e così è sempre stato.

 

CULONA E COMPAGNA: LA NUOVA ‘’ODIOGRAFIA’’ CHE SPULCIA NEL PASSATO COMUNISTA DELLA MERKEL

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Paolo Lepri per "Corriere.it"

ANGELA MERKEL CON LE GIORNALISTE DELLA RIVISTA BRIGITTE

«Qualcuno era comunista», cantava Giorgio Gaber, e questo qualcuno in Germania era addirittura Angela Merkel, almeno secondo una nuova biografia della donna più potente del mondo. In realtà si sapeva già quasi tutto sulla giovinezza nella Ddr della futura cancelliera e del suo navigare prudente in una società totalitaria dai molti occhi, in cui era impossibile emergere schierandosi apertamente contro il potere: l'adesione alla Fdj, l'organizzazione giovanile del Partito comunista, lo studio del russo, l'impegno nella Accademia degli scienziati, la dissertazione obbligatoria sul marxismo-leninismo.

Ma Ralf Georg Reuth e Günther Lachmann (il primo giornalista della Bild , il secondo di Die Welt ) sembrano avere scoperto di più. Anche cose che, dicono, lei sperava di lasciare nel dimenticatoio. La conclusione, sparata ieri in prima pagina, è che la figlia del pastore Horst Kasner, nata all'Ovest nel 1954 ma trasferitasi subito con la famiglia al di là della cortina di ferro, «era più vicina al regime di quello che finora si sapeva».

Secondo i due autori di La prima vita di Angela M. (che arriverà nella librerie tedesche martedì 14 maggio) la futura cancelliera ha svolto un ruolo dirigente (da lei sempre negato in passato) nel movimento giovanile del Partito come responsabile di «agitazione e propaganda», era favorevole ad un «socialismo democratico in una Germania Est indipendente».

ENRICO LETTA E ANGELA MERKEL

Nell'ascesa al vertice cristiano-democratico dopo la riunificazione ha avuto come padrini l'ex leader del movimento di opposizione Demokratischer Aufbruch (Risveglio democratico), Wolfgang Schnur, e l'ultimo primo ministro della Ddr, Lothar de Maizière, che furono entrambi utilizzati come «collaboratori non ufficiali» della Stasi, la polizia segreta del regime.

«Angela Merkel non era favorevole alla riunificazione della Germania, la definirei una comunista riformista», afferma Reuth in un'intervista apparsa ieri sulla Bild , che questa volta sembra aver deciso di dare un dispiacere ad una cancelliera cui non fa mancare spesso il proprio generoso, e molto utile, appoggio.

ANGELA MERKEL RITRATTA COME PRIGIONIERA DI UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO DA UN MAGAZINE POLACCO

Il giornalista aggiunge che la biografia della «ragazza venuta dall'Est» è stata adattata alle attese dell'elettorato della Cdu. La sua rapida scalata nel partito, pochi mesi dopo la caduta del Muro, si spiega con le circostanze di quel momento ma anche grazie all'aiuto di due sostenitori dei quali si sono scoperte le ombre del passato. Questa, in realtà, sembra la parte meno convincente della ricostruzione. Si tratta di ipotesi, e non di fatti, e non si tiene conto del ruolo determinante svolto da Helmut Kohl (che qualche tempo dopo fu tradito dalla sua discepola) nella scelta di quella che l'ex cancelliere chiamava Das Mädchen (la Ragazza).

MERKEL LA PRESSE

Che siano veri o quasi veri i risultati delle loro ricerche, i due giornalisti hanno fatto scoppiare la loro bomba quattro mesi e mezzo prima del voto, entrando a gamba tesa in un mercato editoriale che ha prodotto solo negli ultimi mesi altre due biografie della cancelliera. Le reazioni politiche non si sono fatte attendere, come quella del socialdemocratico Ralf Stegner.

«La signora Merkel - ha dichiarato - deve spiegare quali funzioni politiche svolgeva nella Ddr. Tutto questo non risale a 100 anni fa». Nell'intervista alla Bild Reuth ha risposto ad una domanda sulla coincidenza tra l'uscita di La prima vita di Angela M . e la campagna elettorale sostenendo che il volume era finalmente pronto, a conclusione di un lungo lavoro durante il quale sono stati consultati documenti prima inaccessibili e ascoltati molti testimoni.

merkel ad Ischia ANGELA MERKEL FUMA

«Volevamo naturalmente interpellare direttamente la cancelliera - ha aggiunto - ma ci ha fatto sapere attraverso il suo portavoce che non aveva tempo per rispondere alle nostre domande». Ieri, però, i suoi collaboratori hanno deciso di replicare immediatamente alle prime polemiche, consigliando la lettura di una conversazione con Hugo Müller-Vogg, uscita nel 2005, in cui Angela Merkel si sofferma sulla sua vita nella Germania comunista. Una battaglia, insomma, a colpi di libri.

 


MISSING ITALIA - REGINETTE SENZA PASSERELLA: LA RAI SILURA MISS ITALIA (ERA ORA)

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Maria Corbi per "la Stampa"

Un divorzio non consensuale, per usare un eufemismo, quello tra Miss Italia e la Rai. Una separazione che si annuncia come la guerra dei Roses, con Patrizia Mirigliani decisa a non farsi chiudere la porta in faccia da Giancarlo Leone che ieri, quasi come un inciso, alla conferenza stampa per i David di Donatello, ha annunciato: miss Italia non abita più qui. Non su Raiuno, la rete nazional popolare che da tempo immemore ospita la manifestazione nazional popolare della bellezza.

Una coppia che negli ultimi anni ha avuto qualche crisi ma ha sempre portato alla fine ascolti altissimi, soprattutto in questi anni di moltiplicazione delle reti e divisione dei telespettatori. Mirigliani non ci sta e annuncia azioni legali. Intanto sui blog si scatenano i commenti, perchè miss Italia esiste da 70 anni, ed è come il panettone a Natale, una certezza. Ma divide. C'è a chi piace e chi la detesta.

Per l'Italia che sogna, l'Italia della provincia dove la tv è tata e maestra, delle mamme che sognano figlie «bellissime» e delle ragazze che vedono il successo solo patinato, la notizia è uno choc. Mentre per chi pensa che la battaglia delle donne passi anche per la fucilazione delle miss, è tempo di brindare.

CARFAGNA A MISS ITALIA CARFAGNA A MISS ITALIA

E non importa che comunque sia, in questi anni, il concorso sia stato, una delle uniche strade lineari per approdare in tv. Certo nell'agosto scorso le parole del presidente del cda Rai, Anna Maria Tarantola, che auspicavano una nuova immagine della donna in tv, anche se non riferite a miss Italia, erano suonate come un de profundis per le reginette.

La notizia arriva quando la macchina della manifestazione, che a settembre elegge la più bella d'Italia, è già molto avanti, con le selezioni regionali fatte e un esercito di ragazze che aspetta l'occasione di farsi vedere in tv mentre sfila in costume (3028 le iscritte finora, in aumento). Leone precisa però che già «da gennaio scorso» gli organizzatori sapevano che la prossima finale non sarebbe stata trasmessa da Raiuno visto che il contratto che legava Rai e Miren è scaduto nel 2012.

MISS ITALIA CON SERGIO MARCHIONNE FRANCOIS OLIVIER JOHN ELKANN Sul podio per la volata finale di Miss Italia tre ragazze del Sud Romina Pierdomenico Miss Abruzzo Giusy Buscemi Sicilia e Claudia Tosoni Lazio jpeg

Comunicazione che sarebbe stata data a Lucio Presta, il potente agente che dal 2012 collabora con la Mirigliani. Lei, la patron del concorso, annuncia battaglia anche se nel frattempo fervono i contatti con Sky (e anche Mediaset) per la ricollocazione del concorso. «Guarda caso - si legge in una nota della Miren, diffusa dall'Associazione Utenti Radiotelevisivi - ciò avviene proprio il giorno dopo che la società ha diffidato la Rai a dare seguito agli impegni assunti da 30 anni a questa parte di mandare in onda il format».

Nella lettera la Mirigliani, ricordando che Miss Italia ha sempre curato la correttezza dell'immagine della donna collegando la manifestazione a fini sociali e culturali, si dichiara pronta a dare il format gratuitamente alla Rai e farsi carico delle spese necessarie.

MISS ITALIA GIUSY BUSCEMI jpegMISS ITALIA jpeg

Secondo la Mirigliani, che ha chiesto l'appoggio dell'Associazione Utenti Radiotelevisivi, «non accettare questa proposta, rifiutando una trasmissione che ha raggiunto sempre share altissimi, comporterebbe solo una perdita di milioni di euro per la rete di Stato con pesanti responsabilità erariali in capo ai suoi dirigenti». In gioco non solo i sogni di gloria delle miss, ma anche molti posti di lavoro nell'indotto «e soprattutto un rilevante danno finanziario per l'azienda già in forte crisi economica».

 

 

1. MENTRE IL PD SI AUTOCONGELA CON EPIFANI, BERLUSCONI OCCUPA LA PIAZZA DI BRESCIA E, TRA FISCHI E APPLAUSI, AFFIANCATO DAL MINISTRO DEGLI INTERNI E VICEPREMIER ALFANO, ATTACCA LA MAGISTRATURA: “SONO PARZIALI, VOGLIONO ELIMINARMI” 2. E FRIGNA: “NON VIVIAMO IN PAESE LIBERO, NON POSSIAMO TELEFONARE TRANQUILLI” 3. MA LODA L’ESECUTIVO: “QUESTO GOVERNO È UN FATTO STORICO, EPOCALE. È SUCCESSO SOLO NEL 1947. PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA DELLA NOSTRA REPUBBLICA CENTRODESTRA E CENTROSINISTRA SI SONO MESSI INSIEME PER FARE IL BENE DEL PAESE” 4. GRILLO ATTACCA B. MA CRIMI VIENE CONTESTATO: “BERLUSCONI L’AVETE SALVATO VOI”

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La Stampa.it

Fischi e applausi a Brescia durante il comizio di Silvio Berlusconi. La piazza del Duomo è piena (diverse persone affacciate a finestre e balconi), ma sostanzialmente divisa a metà. Nella prima, immediatamente sotto il palco, i sostenitori del Pdl, con anche una bandiera della Lega; nella seconda i contestatori che fischiano Berlusconi durante il suo intervento, gli gridano "buffone", sventolando bandiere di Sel e Azione Antifascista.

Mentre davanti, simpatizzanti del suo partito chiedono con uno striscione "Aiuto Silvio, no comunismo", più indietro un altro cartello avverte "occhio gente, Silvio mente". Per chi assiste al comizio da metà piazza in su è quasi impossibile sentire chiaramente le parole dell'ex premier.

BERLUSCONI A BRESCIABERLUSCONI A BRESCIA

Il Cavaliere parla per oltre un'ora a tutto campo. «Il Pdl non si fa spaventare e non si fa intimorire. Questo siamo noi e più noi diciamo amore è più forte è la loro invidia e odio. E quanto più vogliono buttarci addosso intolleranza e odio tanto più cresce il nostro amore e passione per libertà a difenderla e alla coesione», dice sul palco.

Poi attacca i giudici: «Sono parziali, vogliono eliminarmi». Arriva anche il momento di lodare l'esecutivo: «Questo governo è un fatto storico, epocale. È successo solo nel 1947. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica centrodestra e centrosinistra si sono messi insieme per fare il bene del paese, varando le riforme e quei provvedimenti urgenti e necessari per rilanciare l'economia».

BERLUSCONI A BRESCIA

Infine Berlusconi torna a parlare di riforma della giustizia: «E' una necessità per gli italiani. Ieri sera ho visto le immagini Tortora quando diceva ai giudici "io sono innocente e spero dal profondo del mio cuore che lo siate anche voi". Ed è questo il sentimento di tantissimi italiani che ogni giorno entrano nel tritacarne infernale della giustizia».

La tensione è alta. Urla e spinta in via Bevilacqua tra sostenitori di Silvio Berlusconi, atteso per un comizio in piazza del Duomo, e un gruppo di contestatori che li ha accolti intonando "in galera, in galera". Il luogo della contestazione, che ha impegnato gli agenti di polizia protetti da caschi e scudi, è uno stretto passaggio in via Bevilacqua che divide l'albergo dove sono riuniti i vertici del Pdl dal palco di piazza del Duomo.

BERLUSCONI A BRESCIA

Proprio in quel punto è posizionato da diverse settimane un gazebo del Movimento 5 Stelle a sostegno del candidato sindaco grillino Laura Gamba. «Sono loro che hanno occupato la piazza, noi siamo qui tutte le settimane, ma di Berlusconi ci interessa poco, ci importa solo che esca dal Senato perchè la sua presenza è indegna sia per le condanne sia per il fatto che non c'è mai», aveva commentato poco prima il capogruppo al Senato dell'M5S, il bresciano Vito Crimi.

Durante i momenti di tensione che hanno preceduto il comizio di Silvio Berlusconi i contestatori hanno bruciato una bandiera del Pdl. E' stato quasi un assedio, invece, quello riservato a Renato Brunetta dai contestatori schierati davanti all'albergo Vittoria. L'esponente del Pdl, appena uscito dall'auto, è stato scortato fino all'hotel da una decina di carabinieri in assetto antisommossa con caschi, scudi e manganelli. Pochi minuti dopo l'ex ministro, sempre protetto dai militari, ha lasciato l'albergo e si è diretto verso piazza del Duomo distante alcune decine di metri.

Intanto è polemica nel governo sulla partecipazione di Alfano alla protesta. «Oggi pomeriggio a Brescia. Tutti a fianco al Presidente Berlusconi e al nostro Sindaco Adriano Paroli», annuncia in mattinata il segretario del Pdl, vicepremier e ministro dell'Interno. Apriti cielo. La reazione del Pd non si fa attendere. La Bindi parla dall'Assemblea nazionale: «Ho sentito che Berlusconi ha detto che farà un intervento pacato, posso dire pacatamente che è grave quella manifestazione e la presenza del vice premier a Brescia?».

«Le manifestazioni non si fanno né pro e né contro i giudici, è sbagliato per tutte le forze politiche, per lo più se di governo, manifestare contro i giudici», avverte il viceministro Pd Stefano Fassina. E anche il neosegretario Epifani critica la protesta del Pdl: «Oggi è una giornata in cui chi è a Brescia sta continuando a mettere mine - scandisce dal palco di Roma - . La sfida è: questo è il governo del Paese o è quello degli interessi di qualcuno?». Immediata la replica di Alfano: «Leale al Paese, leale al governo, leale al Popolo della libertà. Per qualcuno è troppo, per me è giusto».

Preso nella morsa dei processi (dopo la conferma della condanna per i diritti Tv e la richiesta di rinvio a giudizio sulla presunta compravendita dei parlamentari si avvicina il giudizio sul caso Ruby), Berlusconi quindi va al contrattacco appellandosi al giudizio popolare della piazza. Ieri era sembrato che Berlusconi volesse rispettare il principio del «doppio binario» per tenere al riparo il governo. Ma il dietrofront con la presenza in piazza di Angelino Alfano rischia di fare salire la tensione nella maggioranza.

Anche Beppe Grillo va all'attacco di quella che definisce la «marcetta su Brescia». «Nel pomeriggio dell'11 maggio 2013, un condannato a quattro anni di evasione fiscale in secondo grado, farà la sua marcetta su Brescia in piazza del Duomo contro la magistratura», scrive il leader dei 5 Stelle sul suo blog in un intervento corredato da un fotomontaggio del presidente del Consiglio Enrico Letta, ritratto come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.

VITO CRIMI E ROBERTA LOMBARDI CRIMI E LOMBARDI AL QUIRINALE

«I giudici -aggiunge Grillo- hanno il torto di giudicarlo, per lui dovrebbero voltarsi dall'altra parte, come il pdmenoelle o rimanere silenti come le statue di sale delle istituzioni. Ma, purtroppo per Al Tappone, giudicare è il loro mestiere e i tribunali della Repubblica non sono ancora stati privatizzati. Non un fiato da Capitan Findus Letta, non un sospiro dai vertici del pdmenoelle in nome della pacificazione».

Intanto oggi a Brescia è stato contestato Vito Crimi. Il capogruppo al Senato del Movimento 5 stelle si è presentato a sorpresa alla contro-manifestazione organizzata da "Libertà e giustizia". Al presidio, davanti al Tribunale, hanno aderito circa 150 persone, esponenti della Cgil, del Pd, di Sel, per dissociarsi dalla presenza nel pomeriggio in città del Cavaliere ed esprimere solidarietà alla magistratura.

«Il problema vero è che Berlusconi è ancora in Parlamento - ha affermato Crimi -. Dobbiamo affrontare al piu presto la questione dell'ineleggibilità. È impensabile che chi ha condanne con interdizioni ai pubblici uffici sieda ancora in Parlamento. Dove peraltro non c'è mai. Io l'ho visto solo un paio di volte in occasione di alcune nomine».

GRILLO LOMBARDI CRIMI

«Metteremo la questione ineleggibilità subito sul piatto nella giunta per le elezioni», ha assicurato. Alle parole di Crimi si sono levati fischi tra i manifestanti - in testa Azione civile di Antonio Ingroia - che in riferimento al mancato appoggio a un governo Bersani hanno urlato: «Berlusconi l'avete salvato voi».

 

OLTRE A METTERE IN SICUREZZA IL PD, EPIFANI DOVRÀ SBROGLIARE LA MATASSA ECONOMICA: ARIA DI CASSA INTEGRAZIONE PER I DIPE

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Francesco Persili per Dagospia

EPIFANI CAPACCHIONE LETTA FOTO LAPRESSECAPACCHIONE LETTA EPIFANI AMENDOLA

1. Apparato a dieta - «A luglio arriverà la prima rata del nuovo finanziamento ma non sappiamo cosa sarà di noi...» Il progetto politico dem è a rischio e anche l'apparato non si sente molto bene. Mentre Epifani si appresta a traghettare il Partito democratico al congresso, non è il bla bla sulla "forma-partito" a preoccupare ma la struttura stessa del Pd.

La stagione dei soldi pubblici ai partiti è finita. Al Nazareno si respira un clima di incertezza e preoccupazione, il corpaccione democratico è messo a dieta forzata: dopo il piano di austerity annunciato dal tesoriere Misiani sarebbe stata presentata - da quello che risulta a Dagospia - la richiesta di accesso alla cassa integrazione per i dipendenti.

A pesare sui conti del Partito democratico un garbuglio di spese avventate, maxi-stipendi (come Dago-documentato) non più sostenibili in tempi di crisi, gigantismo (che ha portato il Pd avere in un periodo anche 5 sedi) a cui è seguito l'inevitabile ridimensionamento dei costi con la chiusura di due sedi e i tagli del budget della segreteria, degli straordinari, delle mazzette dei giornali e delle forniture di Youdem.tv. Tutto questo accade mentre i circoli continuano a non avere soldi per pagare le bollette e sono costretti a chiudere, come ha ricordato nel suo intervento anche la deputata Valentina Paris.

I dipendenti sperano di essere riassorbiti nel personale dei gruppi parlamentari ma intanto si interrogano sulla natura e la profondità dei tagli: quale sarà il criterio? Affiora il timore di licenziamenti "politici". Da qui la richiesta degli oppositori di Bersani di affiancare un comitato di reggenti a Misiani. Il tesoriere, l'unico della precedente segreteria ad essere rimasto in carica - sentito da Dagospia - smentisce la richiesta di accesso alla cassa integrazione per i dipendenti e ribadisce l'impegno a non licenziare nessuno: «Offriremo opportunità di ricollocazione su base volontaria».

Oltre a mettere in sicurezza il progetto politico democratico, Epifani dovrà sbrogliare la matassa economico-amministrativa. Un altro tema su cui si giocherà il congresso, rifondativo o affondativo, del Pd.

2. Canale De Luca: Marco Meloni al sindaco di Salerno: "Sono un suo estimatore, guardo tutti i suoi video"...

3. Meno siamo, meglio stiamo - Un militante a Paola Concia: "Dopo Prodi ci può essere qualche franco tiratore anche per Epifani?" "Beh, anche qui il voto è segreto, quindi..." - Una delegazione di Occupy Pd entra in sala ma non riesce a parlare: "E' un partito chiuso", Concia sospira: "Per loro, meno siamo, meglio stiamo"

4. Geometrie variabili: "Senza base, scordatevi le altezze" (striscione Insieme per il Pd)

5. Il sindaco nel pallone - Renzi parla di Alex Ferguson e Balotelli ma quando qualcuno al bar gli chiede di Montella ("E se dovesse lasciare la Fiorentina?") perde il sorriso. Con le cose serie, non si scherza.

camusso ed epifani a Milano, Corso Como 10

 

C’È UN SOLO UOMO CHE SECONDO LO STATUTO DEL M5S HA LA POSSIBILITÀ DI GESTIRE SOLDI: GRILLO

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Andrea Malaguti per La Stampa

GRILLO NAPOLITANO

Nel caotico, riottoso, eppure idealmente e giustamente francescano universo del Movimento 5 Stelle - capace di rinunciare a 42 milioni di finanziamenti statali e di restituire di soli stipendi quasi 400 mila euro ogni mese - c'è un solo uomo che secondo lo Statuto del Gruppo, depositato l'11 aprile alla Camera, ha (per lo meno in teoria, più difficilmente in pratica), la possibilità di gestire soldi usciti dalle casse dello Stato senza rendicontarli. Quell'uomo è Giuseppe Grillo.

Ed è proprio su di lui che l'onorevole del Pd Giuseppe Fioroni - dopo averlo anticipato a «Omnibus» su La7 - presenterà domani un'interrogazione per chiedere al Presidente della Camera, Laura Boldrini, e ai colleghi parlamentari, «come il compenso istituzionale di un gruppo possa essere affidato secondo Statuto a un soggetto diverso da un componente del gruppo stesso». Un inedito nella storia repubblicana.

GRILLO E ANONYMOUS

In sostanza: perché Grillo, un non eletto, ha potenzialmente nella propria diretta disponibilità circa la metà degli oltre due milioni e mezzo di euro destinati annualmente al Movimento per il funzionamento delle attività di Palazzo? La risposta è contenuta con chiarezza tra i 21 articoli dello Statuto stesso: per la comunicazione. Che storicamente rappresenta circa il 50% del budget dei gruppi. Grillo pretende di gestirla personalmente. Di scegliere a chi affidarla. E per questo ha chiesto, nel Codice di comportamento degli eletti, un impegno vincolante e scritto a tutti i suoi 163 parlamentari, ottenendo adesione unanime. Perfetto. Ma la domanda è: poteva farlo?

È questo il senso dell'interrogazione di Fioroni. Che si porta dietro un corollario politico non irrilevante: se Grillo utilizza soldi pubblici per la propria comunicazione politica, non fa un'operazione identica a quella dei giornali di partito? Usa soldi della collettività per fare informazione? Che differenza c'è, per esempio, tra i finanziamenti all'Unità e il denaro girato allo staff della comunicazione che utilizza il sito privato del fondatore del Movimento per diffondere il proprio lavoro?

Nei giorni del dibattito feroce su indennità e diaria, su casta e anticasta, la risposta a questi interrogativi rischia di diventare esplosiva. Esternamente. Ma anche nella pancia di un gruppo ormai incapace di tenere sotto controllo le proprie inquietudini e costretto a riunirsi nuovamente domani alle sei di sera per la definitiva resa dei conti.

Un'analisi più approfondita dello Statuto aiuta a capire meglio i dubbi sollevati dall'onorevole del Pd. L'articolo 16, intitolato «comunicazione», recita testualmente: «Il gruppo utilizza il sito www.movimento5stelle.it quale strumento di comunicazione per la divulgazione delle informazioni sulle attività svolte, nonché quale mezzo per l'acquisizione dei contributi partecipativi dei cittadini all'attività politica e istituzionale. (....). Il Gruppo si avvarrà di un gruppo unitario di comunicazione (...). La concreta consistenza della struttura e composizione del gruppo Comunicazione, in termini di organizzazione, risorse e strumenti, sarà definita da Giuseppe Grillo, nella sua qualità di garante del Movimento 5 Stelle (...) L'assemblea delibererà sull'assunzione dei singoli addetti e determinerà l'entità dello stanziamento di cui al comma successivo».

Oggi è la segreteria del Gruppo parlamentare a erogare gli stipendi ai dipendenti dello staff comunicazione (2.500 euro ai responsabili di Senato e Camera Messora e Biondo, 2.000 euro per gli altri), ma il testo non chiarisce se Grillo possa avocare a sé l'intera pratica. Per altro, sempre ipoteticamente, senza rendicontarla. L'articolo 4, intitolato «l'assemblea», spiega infatti: «(...) devono essere deliberate dall'Assemblea tutte le spese che, unitariamente o per voce omogenea, superano i centomila euro. Tutte le voci di spesa comprese tra i diecimila e i centomila euro dovranno essere comunicate all'Assemblea con cadenza almeno trimestrale».

beppe grillo BEPPE GRILLO SPIEGA L ITALIA A NIKOLAUS HARBUSCH E ALBERT LINK REPORTER DI BILD jpeg BEPPE GRILLO SUONA IL PIANO PER IL FOTOGRAFO DI BILD jpeg

Per i lavori del gruppo, fa notare qualcuno nel Pd, vengono erogati all'incirca 1.300 euro a parlamentare. La cifra, moltiplicata per 163, supera i duecentomila euro (poco oltre i 2.5 milioni annuali). Se la metà - centomila euro, appunto - dovesse andare alla comunicazione, potrebbe essere gestita senza consenso assembleare e senza pezze d'appoggio?

Curiosità che nelle ore in cui il papa ligure chiede anche con un tweet un «decreto per l'abolizione dei rimborsi elettorali e il dimezzamento dello stipendio dei parlamentari», potrebbero scatenare l'ennesima polemica.

All'articolo due, comma 5, dello Statuto si può ancora leggere: «Il gruppo riconosce nella rete internet lo strumento capace di assicurare l'informazione dei cittadini e la trasparenza del proprio operato, ed individua come strumento ufficiale per la divulgazione delle informazioni il sito www.movimento5stelle.it». Il tempio del Fondatore come punto di caduta dell'intera informazione internettistica. La Verità. E la Via. Ma pagate in che modo?

 

 

PAOLA CONTRO PAOLA. CORTELLESI VERSUS FERRARI. “MI FAI SCHIFO”. “MI HAI ACCOLTELLATA”

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Marida Lombardo Pijola per Il Messaggero

cortellesi paola 001paola ferrari foto mezzelani gmt

Paola contro Paola. Cortellesi versus Ferrari. Dileggio e invettive. «Mi fai schifo». «Mi hai accoltellata». E il dramma del femminicidio scivola nel grottesco, nelle fauci del web, nell'azzardo di chi, nientemeno, la butta in politica, che gratta gratta, si dice, se una è di destra e l'altra è di sinistra, c'entra sempre un po'.

Tema uno: la violenza sulle donne. C'è una lei drammatica, mordace, tutta scura, nera com'è di pupille, di chiome virtuosamente raccolte in un codino, di abbigliamento austero e monacale, di evocazioni sinistre, mentre se ne sta sprofondata nel buio di un pozzo dove - racconta - l'ha gettata suo marito, e ogni sera ammonisce la Scientifica strillando in romanesco ‘'ao, cercatemi, date una sbirciatina, sono qui''.

Tema due: il calcio. C'è una lei lievissima e flessuosa, dalle biondissime chiome lunghe e seriche e dagli occhioni azzurri, che se ne sta ogni domenica sera a sfolgorare nei fasci di luce artificiale di uno studio televisivo, dove, con dizione perfetta e musicale, discorre amabilmente di squadre, di partite, di rigori e gol. Hanno lo stesso nome, Paola, ma rispettivamente incarnano un'antropologia femminile e il suo contrario.

ani11 paola cortellesi veltroni

Cortellesi, Paola 1, in uno sketch contro il femminicidio attacca Paola 2, Ferrari, indicando in lei la donna bambola che piace all'uomo bruto, e rappresenta perciò un'immagine coerente alla cultura che ispira la violenza sulle donne.

PAOLA CORTELLESI E CLAUDIA PANDOLFI - Copyright Pizzi

Paola 2 risponde a Paola 1 che la violenza contro una donna l'ha commessa lei: mi ha inferto una coltellata, accusa. Forse domani, minaccia, non condurrò la Domenica Sportiva.

L'ETERNA GIOVINEZZA
Possiamo immaginare quale panico stia travolgendo tifosi e ammiratori di Paola Ferrari, 53 anni, antesignana del giornalismo sportivo femminile, simpatizzante del Pdl sebbene nuora di Carlo De Benedetti, icona del "rifattismo" che congela le donne nell'eterna giovinezza, bersagliata per questo da Twitter (che minacciò di querelare), e dal suo co-conduttore Gene Gnocchi. Nessun commento arriva da Paola Cortellesi, 40 anni, imitatrice, attrice, parodista affilatissima e impegnatissima sui temi legati all'impegno civile, sposa del regista Riccardo Milani e neo mamma.

PAOLA CORTELLESI E RICCARDO MILANI PAOLA FERRARI

La mina viene innescata dallo sketch "La Scientifica", mandato in onda su La 7 a Servizio Pubblico, e tratto da "Ferite a Morte", Spoon River di donne ammazzate dai loro uomini che Serena Dandini sta portando in giro, allo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni, e sollecitare la convocazione degli stati generali sul femminicidio.

Ed ecco Paola 1 che dal pozzo dietro casa, dove cerca metaforicamente e inutilmente di attirare l'attenzione su quello che ha subìto, lancia lì un inciso: «Meglio morta che guardare un'altra Domenica Sportiva con l'illuminata, la presentatrice piena di luce che pare la Madonna, quella bionda che dice i risultati con le labbra con il rossetto forte e gli orecchini da lampadario, che a lui piace tanto, e a me faceva proprio schifo».

UN ATTO DI VIOLENZA
La suddetta, affranta e indignata, consegna il suo sconforto al massmediologo Klaus Davi, il quale, nella sua trasmissione su You Tube, aveva a suo tempo già raccolto l'accoramento della stessa per gli insulti dei cinguettatori di Twitter riguardo alla sua forma plastica, o plastificata, e ai giochi di luce per nascondere le rughe.

ggr01 paola cortellesiPAOLA FERRARI A SAINT TROPEZ

E ora questo. «Un atto di violenza verbale inaudita, oltretutto in uno spot a difesa delle donne.. a fare schifo sono gli insulti tra donne..non vorrei che l'attacco fosse politico..dalla Cortellesi mi aspetto spiegazioni. Non la querelerò, è un problema culturale. Ma sto valutando se andare in onda domenica». Il risultato sarebbe una Domenica Sportiva senza la Ferrari. Danni collaterali del femminicidio.

 

BERLUSCONI UCCELLATTO SU TORTORA - LA FIGLIA DI ENZO: “MIO PADRE SI È DIFESO NEI PROCESSI NON DAI PROCESSI”

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1 - SILVIA TORTORA: I MASCALZONI NON DEVONO CITARLO, LO LASCINO IN PACE
Enrico Bellavia per "la Repubblica"

enzo tortora manette lap

«C'è una distanza siderale tra la vicenda di Enzo Tortora e quella di Silvio Berlusconi, trovo tutto questo sconcertante, ingiusto e offensivo. Lo trovo blasfemo ». Silvia Tortora ripercorre la storia di suo padre e non trova un'analogia possibile con il capo del Pdl che in piazza a Brescia evoca suo padre per l'ennesima arringa contro la magistratura.

Tortora, simbolo dell'ingiustizia patita, diventa un'icona comoda, è questo che la offende?
«È la mancanza di memoria: Enzo si è difeso nel processo e non dal processo. Si dimise da parlamentare e andò ai domiciliari. E quando gli chiesero "perché lo fai?", rispose: perché sono un italiano e sto al fianco della gente come me. È banale e volgare accostarsi a lui. Berlusconi è un'altra storia».

wl02 silvia tortora

Eppure in questi 25 anni il suo nome è stato evocato migliaia di volte...
«Enzo era una persona perbene, non era innocente, era estraneo alle accuse per le quali patì il carcere: i mascalzoni non dovrebbero citarlo perché gli si ritorce contro».

ktan03 silvia tortora

Suo padre rimane comunque l'emblema dell'errore giudiziario, non è così?
«Lo è per gli ultimi, per gli invisibili, per i tanti senza voce: la sua storia dimostra che può capitare che una persona perbene si ritrovi in una situazione come la sua. Ma Enzo la affrontò nel rispetto della legge e del suo popolo. E non si servì in alcun modo del proprio ruolo pubblico. Per questo chi non ha niente in comune con lui farebbe bene a lasciarlo in pace».

2 - MALORE PER SILVIO. ALFANO IN PIAZZA PER TACITARE I FALCHI DEL PDL
Carmelo Lopapa per "la Repubblica"

enzo tortora tv

Verde di bile per i contestatori, Silvio Berlusconi lascia anzitempo palco e piazza a Brescia. Ma è anche un leggero malore, una crisi di disidratazione, a costringerlo al ritiro anticipato e poi, in serata, a disertare fino alle 23 la cena di finanziamento, alla quale i seicento ospiti (mille euro a coperto) ancora lo attendevano. Nulla di grave, né di preoccupante, dirà chi gli è stato vicino in quei momenti, ma una di quelle crisi che in passato gli ha causato dei mancamenti. Meglio evitare e riparare in un albergo
fino a tardi.

Il comizio è un mezzo disastro, il leader è furente per la «gestione fallimentare dell'ordine pubblico». Interrompe dopo appena mezzora, tralascia svariate cartelle, quelle in cui avrebbe ricordato di aver «impedito che Prodi diventasse presidente della Repubblica», «che la Bindi tornasse in un ministero», «che Vendola andasse alle Pari opportunità», tra le altre. Brescia è caldissima, è il primo comizio di fronte a una contestazione così vasta, imponente, organizzata.

enzo tortora

Chiama a sorpresa sul palco, in fretta e furia, il sindaco ricandidato Adriano Paroli assieme a Mariastella Gelmini per concludere la kermesse. Al fianco del Cavaliere (non sul palco) c'è giusto il capo del Viminale Angelino Alfano. I due erano insieme ad Arcore e da lì hanno raggiunto Brescia in elicottero.

BERLUSCONI A BRESCIA

Quando i tafferugli e poi le contestazioni costringono il Cavaliere a ritardare di quasi due ore l'inizio del comizio, Alfano chiama su tutte le furie il prefetto Narcisa Brassesco Pace e, soprattutto, il questore, Luigi De Matteo. Chiede conto e ragione di quanto sta avvenendo, loro assicurano di fare quel che devono e possono, il ministro li striglia, raccontano fonti Pdl.

Ma è proprio la presenza di Alfano a diventare un caso politico, ora dopo ora. Se non si fosse presentato a Brescia, il caso politico tuttavia sarebbe esploso dentro il Pdl, raccontano vari dirigenti del partito. La decisione di esserci, da parte del vicepremier, matura nella notte precedente: per rivendicare il suo ruolo di segretario e non lasciare campo e piazza ai falchi, non abbandonare soprattutto Berlusconi nelle loro mani.

BERLUSCONI A BRESCIA

Ai Brunetta, Santanché, Verdini, Biancofiore. Falchi e non solo, tra i quali stava montando il malessere per la rinuncia dei ministri alla piazza di Brescia, quasi a voler prendere le distanze dal partito che li aveva «messi lì».

BERLUSCONI A BRESCIA

E invece no. Il vicepremier raggiunge Berlusconi ad Arcore e con lui il comizio, «perché sono al governo da uomo di partito e resto segretario Pdl» spiegherà ai più fidati. Poi Alfano avverte i colleghi ministri, Gaetano Quagliariello è a Portici, in Campania, per un appuntamento elettorale, molla tutto e raggiunge Brescia. Lo stesso farà, da Milano, Maurizio Lupi. Non raggiungono Brescia per impegni personali solo le ministre Beatrice Lorenzin e Nunzia De Girolamo.

Quest'ultima (Agricoltura), con la figlia piccola a Benevento, ma dice la sua: «Trovo giusto che Alfano sia andato in piazza, come Letta è andato all'assemblea del Pd, due partiti diversi, in cui ognuno manifesta la propria identità nelle forme che ritiene più opportune, entrambe legittime». I ministri presenti resteranno tuttavia per scelta sotto il palco. Al loro fianco, gli altri: Brunetta scortato e festante che fa la "V" tra gli insulti, Verdini, Santanché, Casero, Ronzulli, Gelmini, Prestigicomo, Ravetto, Fitto, Maria Rosaria Rossi.

BERLUSCONI A BRESCIA

«Il fatto è che nel partito ormai è in atto uno scontro tra due visioni contrapposte - racconta uno tra gli uomini più vicini al Cavaliere - e una punta a caricare i toni». È la fazione che per esempio aveva organizzato a Milano per domattina la mobilitazione dei parlamentari Pdl, in concomitanza con la requisitoria al processo Ruby. Magari per spostarsi poi in massa davanti al Tribunale, come avvenuto l'11 marzo.

Meglio evitare, hanno suggerito i legali Ghedini e Longo. E così pure Alfano, che rischiava di ritrovarsi col presidio milanese mentre lui e gli altri ministri sarebbero stati in ritiro col premier Letta in abbazia. Un corto circuito non da poco. L'assemblea di tutti i parlamentari si terrà, ma in una sala di Montecitorio. Il che consentirà peraltro ai legali di tentare l'ennesimo legittimo impedimento per rinviare l'affondo finale, e ormai inevitabile, della Boccassini.

 

DRAGHI NEL MIRINO DEI CRUCCHI: “VUOLE SCARICARE SULLA BCE I DEBITI DELL’ITALIA VERSO CREDITORI PRIVATI”

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Alessandro Barbera per "la Stampa"

Come aiutare le piccole e imprese a uscire dalla crisi? Perché le generose aste di liquidità concesse alle banche da parte della Bce non si sono tramutate in altrettanti prestiti, soprattutto in Paesi come l'Italia o la Spagna?

Draghi e Schaeuble

A Francoforte studiano la questione da tempo, e la risposta che si sono dati è più o meno questa: nonostante il denaro non manchi, le banche, già prese da altri problemi, non si fidano di chi gli va a chiedere prestiti. Allora perché non permettere alle imprese di cartolarizzare parte degli attivi patrimoniali in uno strumento finanziario ("Abs", Asset Backed Securities) e metterle sul mercato, sperando così che le banche si mostrino meno ansiose?

IGNAZIO VISCO ARRIVA ALLA CENA BILDERBERG

La soluzione tecnica non c'è ancora, ma tanto è bastato ai tedeschi per convincerli che si tratterebbe di una operazione dell'«italiano» (Draghi) per dare un aiutino alla madrepatria e scaricare debiti su Francoforte. Secondo lo Spiegel mercoledì scorso, durante un pranzo coi colleghi di partito della Cdu-Csu, avrebbe espresso tutte le sue perplessità il ministro delle Finanze Schaeuble: «Se si trasformasse in un modo per far acquisire alla Bce i 70 miliardi di debiti dell'Italia verso i suoi creditori privati sarebbe aiuto di Stato illegittimo».

È così? Non è la prima volta che emergono dubbi di ambienti tedeschi sul piano. E del resto a Draghi basta leggere sull'Ansa un'anticipazione dell'articolo per convincerlo a farsi vedere sotto la pioggia dai cronisti che lo attendono nel tendone della sala stampa del G7 di Aylesbury. All'inizio il governatore ha la solita aria placida, alla terza domanda il viso tradisce un'espressione contrariata.

«Quella degli Abs è una delle tante opzioni che stiamo studiando per superare la frammentazione del mercato finanziario europeo». Draghi ammette che il progetto non manca di rischi, ma che la Bce non ha ancora deciso nulla e che comunque prima di decidere alcunché «nei limiti del suo mandato» si confronterà con chi poi materialmente potrebbe occuparsene, ovvero la Commissione europea e la Banca europea degli investimenti.

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L'espressione usata da Draghi per spiegare l'idea è la stessa che poco dopo userà anche il governatore italiano Visco: «La Bce potrebbe fare da catalizzatore per la creazione di strumenti finanziari come questi, ma la loro attivazione spetterebbe ad altre istituzioni europee».

Ignazio Visco

Insomma - è il messaggio dei due - Schaeuble può dormire fra due guanciali: nessuno ha intenzione di trasformare la Bce in una «bad bank» di crediti incagliati. Proprio il tipo di soluzione che - per inciso - la Germania attuò in casa propria nel 2008 per evitare il crack del sistema bancario colpito dalla crisi finanziaria.

 


DIGITAL CRIMINAL - LA RAPINA DEL MILLENNIO CON UN TABLET AL POSTO DEL MITRA

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Massimo Vincenzi per "la Repubblica"

Una e-mail porta ad un account registrato a San Pietroburgo, in Russia, ma è un filo troppo sottile. Si smarrisce tra le mani delle polizie di mezzo mondo che indagano sul più grande colpo in banca del 21esimo secolo, con un bottino di 45 milioni di dollari. La prima rapina globale: oltre 27 paesi coinvolti, dagli Stati Uniti al Giappone, Italia compresa. La prima rapina 2.0: i banditi non sparano un colpo, non minacciano nessuno, al posto di maschere e mitra usano il computer.

Ma quello che è accaduto non è l'abituale hackeraggio con tanto di dati clonati. Quello che è accaduto è un film. Loretta Linch, il procuratore di New York - dove vengono arrestate sette persone, altre due, olandesi, sono prese in Germania - parla di Ocean's Eleven, ma non rende l'idea. Sembra più la Spectre di James Bond, un'organizzazione segreta che può contare su «oltre centinaia di persone tra pirati informatici di altissima qualità e gruppi di uomini sul campo».

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Gli hacker si infiltrano nel sistema operativo di due istituti: la Rakbank negli Emirati Arabi e la Bank Of Muscat in Oman. Attaccano i computer della società che gestiscono i fondi delle loro carte prepagate: in India e negli Stati Uniti. Scelgono questi obiettivi perché sono l'anello debole: tanta liquidità e pochi controlli. Rubano i codici, forzano il blocco che fissa il tetto massimo di prelievo. Poi, come in uno spettacolare flash mob danno il via libera ai commando, che aspettano nelle varie città sparse per il mondo.

Ricevuto l'ordine, questi complici partono all'assalto dei bancomat. Le immagini delle polizia di New York mostrano uomini a bordo di Suv che battono Manhattan a tutta velocità. Si fermano davanti agli sportelli, introducono le carte magnetiche con le password rubate e svuotano il deposito.

Tappa dopo tappa le borse si riempiono di banconote verdi, diventano pesantissime: in quasi tremila fermate rastrellano due milioni e mezzo di dollari. Lo stesso avviene in contemporanea negli altri Paesi, in Giappone fanno meglio: prendono dieci milioni. La rapina inizia alle tre in punto del pomeriggio, dieci ore e 36mila transazioni dopo è finita.

A loro va il 20%, il resto va ai vertici invisibili, quelli che hanno ideato il colpo: «Un piano che fa impressione per la sua rapidità, per la chirurgica precisione, per il coordinamento al millesimo di secondo. Ci saranno voluti mesi per prepararlo», dicono gli investigatori americani, che hanno arrestato i sette componenti della cellula newyorchese.

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L'ottavo accusato, il loro capo, Alberto Lajud Pena detto "el Prime", viene trovato morto nella Repubblica Domenicana il 27 aprile. Il giallo nel giallo. Gli uomini che svuotano i bancomat si fanno prendere perché si comportano come malviventi vecchio stile e i "pochi spiccioli" ottenuti li spendono subito in Rolex e auto di lusso. Si fanno notare. I mandanti restano all'ombra dei loro computer. Riciclano i soldi facendoli girare su conti correnti off shore.

La rapina va in scena in due atti. Il primo, il 21 dicembre, è la prova generale: vengono rubati 5 milioni per testare gli allarmi. Tutto fila liscio, il piano gira che è una meraviglia. E allora il 19 febbraio scatta l'ora X, che porta al super bottino di 40 milioni.

Uno degli agenti speciali che lavora al caso spiega all'Huffington Post: «Le nuove tecnologie hanno spostato i confini tradizionali del crimine. Questa è una rivoluzione, che dobbiamo imparare a combattere. Altrimenti gli hacker saranno in grado di danneggiare in maniera irrimediabile il mondo finanziario». Le banche stanno rinforzando i loro sistemi operativi di sicurezza. Il Numero Uno delle Spectre sta già pensando al nuovo colpo.

 

SALUTAME A’ SOROS: “NESSUN RIMORSO PER L’ATTACCO ALLA LIRA. E SE CONTINUA LA CRISI TORNA BERLUSCONI”

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Francesco Spini per "la Stampa"

GEORGE SOROS E ADRIANA FERREYR jpeg

Ventuno anni dopo, «nessun rammarico». Nel 1992 con il suo fondo Quantum, George Soros portò la lira al collasso, causando una svalutazione del 30% per la moneta tricolore che rischiò di far collassare le finanze pubbliche. Ecco, ventuno anni dopo, seduto a un tavolo di un hotel del centro di Udine dove arriva per ritirare il premio letterario internazionale Tiziano Terzani per il suo ultimo libro sulla crisi, all'interno del festival «Vicino/lontano», non mostra ripensamenti di sorta.

GEORGE SOROS E ADRIANA FERREYR jpeg

«Ai tempi presi una posizione sulla lira perché avevo sentito dichiarazioni della Bundesbank» secondo cui non avrebbero sostenuto la moneta oltre a un certo punto. Nulla di segreto, sottolinea, «si trattava di dichiarazioni pubbliche, non ho avuto contatti personali». E oggi, al ricordo, non usa giri di parole: «Quella fu una buona speculazione».

Dopotutto Soros, dall'alto della sua veneranda età - ad agosto saranno 83 anni - non è tipo da nascondersi dietro un dito. «Le crisi finanziarie - attacca - non sono causate dagli speculatori, ma dalle authority che creano regole sbagliate che consentono agli speculatori di porre in essere quello di cui poi vengono incolpati». Invece, a suo modo di vedere, gli speculatori sono semplicemente «messaggeri di cattive notizie».

GEORGE SOROS GEORGE SOROS

E di cattive notizie è pieno il mondo. Prendiamo l'Italia. La tregua dei mercati, avverte, «non durerà a lungo. Siamo in una situazione lontana dall'equilibrio». L'Italia è in grave difficoltà, dice, anche se «non è senza speranza. Con dei cambiamenti alla struttura dell'euro potrà risolvere i suoi problemi. La grave recessione deriva dalle regole di austerità imposte dall'Europa. Ma non rischia di fare la fine di Cipro». Pesa la crisi politica interna.

E aggiunge: «C'è una tragedia dell'Europa e anche una tragedia dell'Italia: la crisi dell'euro sta lavorando per far tornare Berlusconi...». Il punto, secondo lui, è che l'Italia «non è più padrona del suo destino, le politiche non sono più confinate nei singoli stati». La crisi, sottolinea, ha già causato una « d e ge n e ra z i o n e » dell'Europa che era nata come «una associazione volontaria tra eguali», ed è ora trasformata in «qualcosa di radicalmente diverso, in una relazione tra creditori e debitori».

E le cose vanno cambiate. Primo problema è «livellare il piano di gioco» tra i paesi in fatto di tassi e accesso al credito, per il settore pubblico e per quello privato, a cominciare dalle Pmi. «Attualmente lo svantaggio delle Pmi per l'accesso ai prestiti ha raggiunto le proporzioni di una crisi nella crisi. Mario Draghi ha riconosciuto il problema: alla Bce stanno discutendo la possibilità di utizzare la banca centrale per risolvere tali problemi» attraverso sistemi di rifinanziamento per le banche.

GEORGE SOROSGeorge Soros

«Io nutro molta speranza sul punto: se le Pmi riusciranno ad avere un accesso al credito ovunque in Europa alle stesse condizioni, sarebbe una svolta epocale». Garantire credito a tutti alle stesse condizioni «comporterebbe una mutualizzazione dei debiti su larga scala. Questo alla fine potrebbe convincere le persone della possibilità, allo stesso modo, di mutualizzare anche i debiti sovrani. Potrebbe essere dunque una via indiretta per arrivare a quella soluzione positiva della crisi dell'euro». Che per Soros significa eurobond e politica fiscale comune. Tanto che, secondo lui, la Bce da sola non basta, «come negli Usa, dove accanto alla Fed c'è il Tesoro, anche in Europa accanto alla Bce serve un'autorità responsabile della politica fiscale».

soros george

La crisi, insomma, va gestita «a livello europeo» ma «vanno modificati i trattati costitutivi dell'Ue, oggi palesemente inadeguati». Invita tutti a «prendere più sul serio la politica europea» a cominciare dalle elezioni europee del prossimo anno che «saranno molto importanti», confidando nel progetto che punta a far eleggere dal Parlamento il presidente della Commissione. Si vedrà.

George Soros

«La crisi è profonda - sostiene - ma non è e non deve essere l'inizio della fine dell'Europa». L'importante è cambiare strada. «Cresce l'evidenza che le politiche di austerità non funzionano, presto o tardi mi aspetto un'inversione di tendenza. Prima accade, meglio è». Anche perché «l'Europa sta nuocendo a se stessa ed è ormai disallineata rispetto al resto del mondo». Parola di speculatore.

 

CARLO STRA-RIPA DI MEANA FOLGORATO SULLA VIA DI ALE-DANNO: “LO VOTO, APPREZZO IL SUO DRESSAGE…”

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Concetto Vecchio per "la Repubblica"

Carlo Ripa di Meana si dimette da presidente di Italia Nostra Roma, pronto «alla battaglia per Gianni Alemanno sindaco». Bum! «Non è stato semplicissimo, eh», ammette, reduce da una «bellissima conferenza sulla natura a Calcata».

CARLO RIPA DI MEANA

Non trova di tradire così gli ideali di una vita a sinistra?
«Non trovo, francamente. Cos'è oggi la sinistra? Se lo domanda anche il Pd in maniera angosciosa».

CARLO E MARINA RIPA DI MEANA

Ma che meriti ha Alemanno?
«È presto detto. Preferisco l'imperfetto Alemanno, che però si è fatto cinque anni di
dressage, di addestramento, ai volenterosi dei suoi concorrenti».

Cinque anni di scandali, di connivenze con dubbi personaggi del passato...
«Ha ragione, infatti deve cambiare buona parte dell'équipe, lui stesso ha detto che le ultime scelte non sono state felici...».

MARINA RIPA DI MEANA E GIANNI ALEMANNO - copyright Pizzi

Vede...
«Però, ho ammirato la sua rinuncia, contro il parere di molti funzionari, al parcheggio del Pincio, iniziato da Veltroni: una vera impresa di affarismo urbanistico...».

Le sembra ben amministrata Roma?
«Luci ed ombre, ma Marino proprio non mi convince...».

CARLO RIPA DI MEANA

Scommetto che ha votato per Berlusconi alle politiche.
«Esatto, è stato il mio primo voto per lui. Spero che Roma tenga. Se cade, Berlusconi verrà travolto».

Come nasce questo innamoramento per il Cavaliere?
«Ecco, nella qualità dell'uomo Berlusconi, dato mille volte cotto, mille volte morto, ho trovato una sintonia con le cose profonde: in campagna elettorale diceva verità infinitamente più pacate di quelle naif di Bersani...».

Ma perché dice che contro di lui c'è addirittura una caccia all'uomo?
«Siamo in presenza di un assassinio mediatico, che mi ricorda le accuse della Cederna contro il presidente Leone...».

MARINA RIPA DI MEANA GIANNI ALEMANNO - copyright Pizzi

Silvio Berlusconi in un altro Paese non sarebbe mai arrivato al potere.
«Sa qual è oggi il vero conflitto d'interessi? Mps».

Il Monte dei Paschi?
«....(Breve silenzio). Eh, io immagino lo stupore per questa mia scelta. Posso immaginare i dissensi che provocherà».

Non teme lo stupore di chi l'ha seguita per una lunga storia?
«Credo di no. Se avranno la pazienza di consultarmi, sarò felice di spiegarglielo personalmente».

E Marina, che dice?
«Ho aspettato che tornasse dalla presentazione del suo libro a Bolzano e Trento per dirglielo. Sa, siamo talmente vicini e prossimi. Mi ha ascoltato lungamente, in silenzio: "Beh, Carlo, ti sento così deciso, ti capisco"».

 

FALLITA LA SFIDA A LETTA DEL CACADUBBI RENZI: ATTRAVERSO IL PD, CHE LO DETESTA, NON RIUSCIRA’ MAI AD ARRIVARE A PALAZZO

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Federico Geremicca per "la Stampa"

Matteo Renzi a Otto e Mezzo da Lilli Gruber

Non c'è riuscito lui - ormai semplicemente Matteo - che pure è imbattibile quando si tratta di motivare la truppa e tirare su il morale almeno un po'; ma non c'è riuscito nemmeno l'altro - già semplicemente Enrico - che pure costituiva di per sè un evento di cui esser felici, essendo il primo premier pd a parlare in un'Assemblea nazionale del pd: cioè, a casa sua. Solo che sulla porta di quella casa campeggia da un paio mesi un fiocco nero che simboleggia più lutti: non aver vinto le elezioni, non aver eletto il Presidente della Repubblica che si voleva e - perfino - esser stati costretti a fare un governo gomito a gomito con Berlusconi, il giaguaro, il Grande Corruttore, il nemico degli ultimi vent'anni.

RENZI SERRACCHIANI FC ACB

Clima depresso, dunque: e poichè la depressione può esser contagiosa, è in quest'aria di mestizia preoccupata che Matteo Renzi ha vissuto la sua "prima volta" da oratore di fronte alla platea dell'Assemblea nazionale pd, ed Enrico Letta ha celebrato il suo esordio da Presidente del Consiglio: in carica, e non semplicemente incaricato.

RENZI FONZIE ALLA JOHNS HOPKINS

Già, Enrico e Matteo, entrambi toscani, entrambi sufficientemente giovani e tutti e due ex dc (o popolari, è lo stesso): sarebbero perfetti per una diarchia, non rara in politica (da Craxi-De Mita fino a Veltroni-Prodi...) se non fosse che amano fare lo stesso lavoro (il governo, più che il partito) e che a Palazzo Chigi uno ci vuole arrivare, mentre l'altro c'è già. E ci vuol restare. Con linguaggio marinaro, si potrebbe dire che Enrico e Matteo sono in rotta di collisione: e passando al gergo politico, non è che la sostanza cambi granchè.

Eppure Renzi ci ha provato a suonare la carica, con un intervento che almeno in tutta la prima parte non si è discostato dal suo "format" tradizionale. Balotelli ed El Shaarawy per dire del diritto di cittadinanza; il ritiro di Sir Alex Ferguson per segnalare che il mondo cambia; il wrestling per avvisare di stare attenti, chè la lotta Pd-Pdl - ora che si è al governo assieme - rischia di apparire una finzione.

RENZI

Platea tiepida (soprattutto nelle prime file occupate dai dirigenti) e quindi il cambio di tono. Qualche sassolino da tirar via dalle scarpe («Abbiamo cominciato a perdere quando abbiamo respinto la gente ai seggi oppure chiesto i certificati medici... Io le primarie le avrei perse comunque: ma lì, forse, ci siamo giocati le secondarie...») ed eccolo piombare sul tema del giorno: il Pd ed il governo.

Se c'è qualcuno che dovrebbe esser sgomento per l'arrivo di Letta a Palazzo Chigi, questo qualcuno - naturalmente dovrebbe esser Renzi: ed è invece proprio lui a usare i toni più netti e decisi. «Non è il nostro governo, va bene: l'ha detto anche Letta. Ma al comando c'è uno di noi, e il bivio è semplice: o lo guidiamo o lo subiamo».

RENZI MATTEO

È evidente cosa vorrebbe che si facesse. Così come è chiaro il modo che ha di intendere il rapporto tra il gruppo dirigente e la cosiddetta base. Quel rapporto è andato definitivamente in crisi nei giorni della scelta del Presidente della Repubblica, con i parlamentari del Pd sommersi da mail, tweet e telefonate di protesta: «Ma noi abbiamo bisogno di leader, non di followers», che detto da uno che ha fatto della modernità la propria cifra, suona sempre bene ma è un po' una sorpresa.

renzi vignetta

Del resto sono tante le sorprese in questa giornata: la giornata in cui il "fascistoide" si trasforma nell'uomo della possibile rivincita, e vanno in scena armistizi - se non una vera e propria pace - che proprio non t'aspetti. Ecco, per esempio, Anna Finocchiaro. Qualche settimana fa: «Renzi? Un miserabile». Ieri, invece: «Renzi? Ormai quasi cinguettiamo - spiega sorridendo -. È venuto a cercarmi durante l'Assemblea, ci siamo parlati, è stato molto carino». Oppure la sorpresa di ricevere un apprezzamento davvero inaspettato: «Dopo il mio intervento è venuto a farmi i complimenti Alfredo Reichlin - racconta Renzi ad uno dei deputati a lui più vicini -. Mi ha fatto piacere, inutile fingere che non sia così...».

Ma nemmeno per Renzi son solo rose e fiori. Ecco, per capirsi, un po' di commenti dopo il suo intervento. Beppe Fioroni: «Platrea tiepida. Matteo sta cercando di capire se ha ancora una partita da giocare oppure no». Roberto Cuillo, storico portavoce di Fassino: «Ha parlato come il padrone del Pd. Bene. Ma ho l'impressione che Letta si trasformerà in un problema per lui».

MATTEO RENZI FOTO DA CHI

Enzo Amendola, tra i "saggi" che hanno costruito la segreteria Epifani: «Discorso furbo ma buono. Io condivido del tutto la parte sul governo: o lo guidiamo o lo subiamo. Uno dei nostri dirigenti ci avrebbe messo 40 minuti per dirlo: Renzi 10 secondi. Anche questa è modernità». E Paola De Micheli, lettiana al vetriolo: «Un intervento pieno di "ma anche"... Ha tentato un discorso empatico, ma l'empatia non è scattata».

RENZI SANTO SUBITO

E questo, insomma, è un po' di quanto accaduto nel giorno di due attese prime volte. Letta e Renzi, naturalmente, avranno modo di incrociarsi ancora. Ieri tutto bene, senza una sbavatura: ma per il futuro sono in pochi a scommettere che andrà sempre e di nuovo così. Purtroppo o per fortuna del Pd...

 

 

SERVIZI E SERVIZIETTI: L’EX NUMERO DUE DEL SISDE INDAGATO PER UN BUCO DA 10 MLN ORA È ACCUSATO DI AVER COLLABORATO CON L

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Guido Ruotolo per "la Stampa"

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Tirate il fiato perché questa è la storia che ci riporta a un tempo antico, quello in cui camorra e servizi segreti operarono insieme. In questo caso invece camorra e Stato, ministero dell'Interno, hanno investito i propri capitali nella stessa banca. Ma i soldi del Viminale sono spariti.

Iniziamo da un passaggio del decreto di fermo della Procura antimafia di Napoli contro due riciclatori del clan camorrista Polverino, Eduardo Tartaglia, produttore cinematografico, Rocco Zullino, broker che opera a Lugano. Fermati martedì scorso, nello stesso giorno in cui gli uomini del Ros dei carabinieri entravano nella sede dell'ex Sisde, oggi Aisi, il servizio segreto civile, per perquisire gli uffici di Franco La Motta, prefetto in pensione da un mese, da aprile, e fino allora numero 2 dell'Aisi - e prima ancora numero uno del Fondo Edifici di culto (Fec) presso il Viminale - e fino a martedì consulente dell'Aisi.

Il procuratore aggiunto Gianni Melillo e i pm Ardituro, Del Gaudio e Ribera scrivono nella richiesta di convalida del fermo: «Numerose sono risultate poi le conversazioni intervenute tra Eduardo Tartaglia e Rocco Zullino aventi ad oggetto un investimento eseguito dal Ministero dell'Interno, in particolar modo dal Dipartimento per le libertà civili e per l'immigrazione (da cui dipende il Fec, ndr). Non è ancora chiara la natura del consistente impiego di denaro pubblico presso la Hottinger (banca svizzera, ndr), ma è oltremodo evidente l'imbarazzo degli interlocutori nell'affrontare le conversazioni relative alla vicenda».

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Aggiungono i pm: «In tale vicenda risulta coinvolto il Prefetto Franco La Motta, come osservato in contatto con il Tartaglia, oltre che individuato dal Perrone (Roberto, imprenditore, ai vertici del clan Polverino oggi pentito, ndr) come soggetto a cui il medesimo Tartaglia si riferiva come esponente in grado di fornire informazioni sulle indagini in corso».

Sappiamo poi che il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri, appreso del buco di una decina di milioni di euro sottratti al Fec, investiti da La Motta nella «Hottinger» e poi scomparsi, ha inviato un esposto alla Procura di Roma - che indaga il prefetto La Motta per peculato e riciclaggio - e messo in piedi una commissione d'inchiesta formata da un avvocato dello Stato, un generale della Gdf e un ispettore del Tesoro.

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Il fermo dei due riciclatori avviene nell'ambito di una inchiesta che riguarda «il trasferimento - attraverso una serie coordinata di varie operazioni finanziarie internazionali - della somma di circa 7 milioni e 200 mila euro, provento del delitto di associazione mafiosa, inizialmente presso la Projeckty Investice s.r.o. utilizzando una banca sul territorio della Repubblica Ceca, successivamente nel Regno Unito, apparentemente ad una società denominata Willbest Ltd. ed, infine, su un conto aperto presso un istituto bancario elvetico.». I 7 milioni e 200 mila euro sono il provento del clan «per la realizzazione di un centro commerciale IPERCOOP a Quarto».

A proposito di Tartaglia e Zullino, i pm napoletani si sono convinti che il secondo fosse «completamente asservito e pervaso da una sorta di sudditanza nei confronti del socio padrone Tartaglia anche per le decisioni più banali». A Zullino che gli dice di aver fissato un appuntamento di lavoro, Tartaglia gli suggerisce «di mettere nel suo studio le foto che ha con Maroni o altre personalità per dare più credibilità all'incontro...».

Racconta Roberto Perrone: «Il Tartaglia fece particolare riferimento ad un suo cugino, prefetto in Roma, che - grazie alla sua posizione - era riuscito ad ottenere informazioni sulle mosse della Procura in relazione a questa vicenda. Devo dire che, in seguito, in colloqui riservati tra me e l'Imbriani, quest'ultimo mi ha poi riferito di aver stretto un rapporto costante con questa persona, tanto che spesso la frequentava recandosi in Roma».

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Sempre Perrone racconta un episodio che avvenne nel 2007, quando lui e gli altri imprenditori camorristi volevano acquistare una caserma, «che era l'arsenale dismesso della Marina Militare di La Spezia, nella zona delle Cinque Terre».

Il progetto necessitava di «un cambio di destinazione d'uso» per la «successiva costruzione di numerosi appartamenti o, addirittura, di una struttura alberghiera». «Data la particolare difficoltà nell'acquisizione di un terreno demaniale, Nicola Imbriani si avvaleva inizialmente dell'appoggio politico del senatore Gaetano Pellegrino (Udc, ndr) che gli aveva fornito le dovute assicurazioni al riguardo.

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Il prefetto La Motta, entrava in gioco in questa vicenda per i necessari contatti per essere favoriti sia nell'acquisto e sia per gli eventuali successivi atti urbanistici, come per esempio i cambi di destinazione d'uso, di un immobile di proprietà demaniale e successivamente dismesso».

 

 

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