Ubaldo Casotto per "Il Riformista"
antonio di pietro idv«Dagli amici mi guardi Iddio che...». Potrebbe diventare questo il sottotitolo di una definitiva Autobiografia di Antonio Di Pietro scritta di suo pugno. Per ora ci si deve accontentare di quelle, non autorizzate, dei suoi amici, ex amici forse, come quella di Mario Di Domenico, avvocato civilista di Capistrello in provincia dell'Aquila, co-fondatore del partito di cui l'ex pm è leader, l'Italia dei valori.
Diciamolo subito Il "colpo" allo Stato - La legge è uguale per tutti... salvo alcuni (EdizioniSI, 416 pp. 15 euro) non è un apologia della vita, da magistrato prima e da politico poi, dell'eroe di Mani pulite. Tutt'altro. E tira aria di querele. «Il giudice Tonino», così lo chiama l'autore ogni volta che lo cita, le ha già annunciate. Peraltro Di Domenico le chiede: «Ho sfidato Di Pietro a denunciarmi per calunnia» ha detto recentemente.
mario di domenico - dipietroIl libro ha andamento cronologico. Parte dal 1992, l'anno che consègnò «il giudice Tonino» agli onori della cronaca. Con il racconto della prima conoscenza tra Di Pietro e Di Domenico: un reciproco "vaffa" davanti all'ospedale di Pescara dove erano ricoverati il padre dell'avvocato e la madre del pm.
«Mentre uscivo dal cancello dell'ospedale un'auto blu mi evitò per un soffio al centro della strada. Lanciai un esplicito invito sollevando il braccio verso una direzione inequivocabile. Era l'auto del giudice Tonino e lui era seduto sul sedile posteriore. Si girò e rispose anch'egli col braccio verso di me, in maniera altrettanto chiara...». Destinati a incontrarsi e a mandarsi a quel paese, come a distanza di anni è risuccesso.
falcone borsellinoIl fil rouge del nuovo maleducato invito ad andare a... è il lungo elenco degli "amici" del «giudice Tonino», una sequela di nomi, cognomi e volti che forse Di Piero non gradirà gli venga ricordata. Si parte da Stefano Euleterio Rea, ex comandante dei vigili urbani di Milano, che lo rievoca così: «Quando Tonino viene a sapere che ho dovuto rivolgermi a D'Adamo per un prestito, lu mi fa: sei un fetente. Hai chiesto i soldi perché hai perso alla corse con Gorrini... Si mette in mezzo e come finisce? Che chiede, lui, altri 100 milioni a Gorrini (...) Io gli avevo detto: sei un magistrato, non metterti in mezzo... L'obiettivo di Tonino, con il suo intervento, era quello di ottenere soldi per se stesso, punto e basta...».
Il figlio di Di PietroSi prosegue con il citato Gorrini, il quale gli dice: «Mi fai schifo, e te lo dico di persona, da amico mi fai schifo» sostanzialmente accusandolo di aver arrestato persone delle quali sapeva tutto da anni e che aveva anche favorito (il riferimento è al concorso per i Vigili Urbani).
Ci sono poi gli amici millantati (a dire di Di Domenico, almeno), come quello con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il «giudice Tonino» sostenne che le attività dei pool di Mani pulite a Milano e del maxi processo a Palermo fossero strettamente coordinate fra loro e che lui era in contatto operativo e personale con i due pm siciliani. Fu smentito da Francesco Saverio Borrelli con queste parole:
«Non vi è mai stato alcun incontro tra Di Pietro e Giovanni Falcone (...) Non è vero che in questo procedimento né in alcun altro i prestigiosi colleghi Borsellino o Falcone si siano mai avvalsi della collaborazione del dottor Di Pietro né è vero che il dottor di Pietro si sia mai occupato di riciclaggio di denaro sporco in Italia o all'estero». Ma forse Borrelli non è ascrivibile alla lista degli "amici", secondo il senso usuale di questa parola, dell'ex pm.
Foto inedita lagente dei servizi segreti USA oscurato consegna una targa a Di Pietro alla cena con Contrada nel Da LiberoSicuramente amica, fin dall'infanzia, gli era invece Anita Zinni, insegnante di Sulmona, alla quale «il giudice Tonino» raccomanda il figlio Cristiano, bisognoso di recuperare gli anni scolastici persi. Lei provvede, con cura amorevole, sfidando la lettera della legge che vuole che la prova orale della maturità vada sostenuta in seduta pubblica pena la nullità. Ma ricorda lei: «A Cristiano andava solo scongiurato il rischio che magari qualche giornalista potesse assistere a una sua figuraccia, al suo balbettare di fronte alle domande della commissione». Esame blindato, quindi. Porte chiuse e diploma di ragioniere.
Porte chiuse anche il 15 dicembre 1992, ma qualche fotografo di troppo. È la sera della famosa cena di Antonio Di Pietro alla Caserma del Reparto Operativo, Nucleo investigativo in via Selci 88, Roma. Presenti il numero tre del Sisde Bruno Contrada, arrestato nove giorni dopo con accuse di contiguità alla mafia, alti ufficiali dei Carabinieri, della Polizia, dei servizi segreti e un misterioso americano che gli consegna una "onorificenza" o una "patacca" a seconda delle versioni. Quando di quell'incontro "ingombrante" per l'immagine di un magistrato che vantata rapporti con Falcone e Borsellino spuntarono le fotografie, ad alcuni finanzieri che le avevano scattate fu chiesto di restituirle con la singolare motivazione - così racconta Di Domenico - che le avrebbero riavute "autografate" da vip presenti alla cena.
Di Pietro a cena con Contrada nel a giorni dallarrestoNell'elenco degli amici c'è ovviamente il maggiore D'Agostino, quello che nell'agenda del banchiere Chicchi Pacini Battaglia compariva più volte con a fianco la dicitura "pagato"; c'è l'avvocato Agostino Ruju, «l'uomo di Hong Kong», esperto di circuiti finanziari che «il giudice Tonino» salutò con un confidenziale «Ciao Agostì, come va?» quando andò a interrogarlo a San Vittore, suscitando la sorpresa del suo difensore. Hong Kong è poi la meta, secondo la testimonianza di Pio Deiana, di un viaggio del «giudice Tonino» in veste non ufficiale nella primavera/estate del 1993... Ma di questo, e di altre amicizie, domani.
«Un giorno mi chiama al telefono. Io ero a Roma. Sento per la prima volta la sua voce direttamente. Dott. Di Pietro, sono Silvio Berlusconi: le sto parlando dall'ufficio del presidente della Repubblica. Vorrei incontrarla perché mi interessa averla nella mia squadra». L'anno è il 1994. È il primo contatto tra l'allora pubblico ministero di Mani pulite e l'allora presidente del Consiglio in fieri. Nel frattempo il primo ha cambiato mestiere, il secondo non ancora.
Di Pietro con gli americani foto di Silvana MuraIl virgolettato è di Antonio Di Pietro, e «il giudice Tonino» - come lo chiama il suo ex amico Mario Di Dominico - è uomo d'onore, possiamo quindi credergli. È tratto dal libro-intervista che gli fece Giovanni Valentini nel 2000.
Ma non è l'ormai nota offerta del Cavaliere a quello che diventerà il suo più acerrimo nemico («Io a quello lo sfascio!») che qui interessa, quanto il prosieguo di quel racconto che getta una luce chiarificante sulla polemica innestata in questi ultimi giorni dal comizio anti-berlusconiano del pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia e dalle parole di fuoco di un altro rappresentante dell'ordine dei magistrati, il segretario della loro associazione sindacale Giuseppe Cascini, il quale è intervenuto a gamba tesa nel dibattito politico italiano dichiarando che «questa maggioranza non ha la legittimazione storica, politica, culturale e anche morale per affrontare la riforma costituzionale della giustizia».
Di Pietro nella sede dellIDV in Florida insieme a Talbott Mura Bianchini Stalk da LiberoI ricordi degli anni eroici di Mani pulite, affidati da Di Pietro a Valentini, documentano per sua stessa ammissione uello che pervicacemente ogni toga rifiuta di ammettere: che molti magistrati in questo paese se ne fregano della divisione dei poteri e fanno tranquillamente politica. E questo succede ormai (almeno) da vent'anni.
Ecco come va avanti la ricostruzione di quegli avvenimenti del 1994, sempre con le parole di Di Pietro.
«Riattacco il telefono e telefono a Borrelli e gli racconto tutto. Il procuratore prima mi chiede che cosa ho risposto, poi mi dice: "Ti consiglio di non accettare", o qualcosa di simile. Ma - sia chiaro a scanso di equivoci - il suo suggerimento era legato alla necessità di proseguire l'inchiesta, di andare fino in fondo, di non lasciare il lavoro a metà».
Non si sa come prenderla questa precisazione di Di Pietro sulle reali intenzioni - «a scanso di equivoci» - del procuratore capo di Milano e su cosa voglia dire quel «non lasciare il lavoro a metà». Le date possono, forse, aiutare.
Il primo governo Berlusconi ha giurato il 10 maggio 1994, le elezioni si sono svolte il 27 e 28 marzo precedenti, l'incarico di formare il governo fu affidato al Cavaliere il 28 aprile. La telefonata «dall'ufficio del presidente della Repubblica» Oscar Luigi Scalfaro sarà arrivata a Di Pietro verosimilmente negli ultimi giorni di aprile di quell'anno.
Cinque mesi dopo, l'8 ottobre 1994, la Procura di Milano recapitava via Corriere della sera a Silvio Berlusconi, che presiedeva a Napoli un convegno internazionale sulla legalità nell'ambito del G7, il famoso invito a comparire. Cosa intende Di Pietro quando dice che il suo capo non voleva «lasciare il lavoro a metà» e che per questo gli sconsigliava di entrare nel governo Berlusconi?
Di quella telefonata tra Di Pietro e Borrelli sono possibili le più disparate interpretazioni, non esenti da partigianeria. Quella seguente invece, tra Di Pietro e Piercamillo Davigo, suo collega nel pool di Mani pulite, non lascia dubbi.
«Subito dopo la telefonata di Berlusconi, avevo chiamato Davigo per consultarmi anche con lui. Entrambi ci siamo chiesti: possiamo fidarci politicamente di Berlusconi? Fummo d'accordo che non ci si poteva fidare. Ma il problema era se conveniva lasciare fare il ministro degli Interni a qualcun altro che poteva rivelarsi un nemico di Mani pulite oppure andarci io personalmente, proprio per non correre rischi.
SILVIO BERLUSCONIIn quella conversazione, Piercamillo lasciò la porta aperta a entrambe le soluzioni, con una prevalenza per l'ipotesi negativa. Ricordo le mie valutazioni a caldo con Davigo: "Rilanciamo - gli dicevo -, se ci danno gli Interni e la Giustizia, siamo tranquilli che nessuno potrà imbrigliarci, questo diventerebbe il governo di Mani pulite".
Ma non c'era lo spazio per tutti e due. Ed è qui, per quanto mi riguarda, che è scattata in me la decisione di rinunciare alla proposta. Se il Polo avesse offerto concretamente anche a Davigo di entrare nella squadra di governo, allora mi sarei orientato ad accettare».
Antonio Ingroia«Il governo di Mani pulite». Ecco il progetto "politico" del magistrato Antonio Di Pietro sette mesi prima di togliersi platealmente la toga il 6 dicembre 1994. Sarebbe stato, quello, un governo di cui oggi Giuseppe Cascini direbbe che ha «la legittimazione storica, politica, culturale e anche morale per affrontare la riforma costituzionale della giustizia»? Credo di sì.
ILDA BOCCASSINI E FRANCESCO SAVERIO BORRELLIDi legittimazione, però, gliene sarebbe mancata una, quella delle urne. Quella «sovranità che appartiene al popolo» che tutte le volte che si esprime in modo difforme dai desiderata delle élites (togate e culturali) di questo paese viene bollata di populismo. Non che l'allure politica del Cavaliere di Arcore sia scevra da questa tentazione, ma ha avuto finora il conforto dei risultati elettorali, «esercitati nelle forme e nei limiti della Costituzione».
PIER CAMILLO DAVIGOL'offesa (con rettifica pusilla) di Giuseppe Cascini, un uomo che la Costituzione oltre che applicarla dovrebbe conoscerla, non è a Silvio Berlusconi e al suo governo, ma a tutti colori che hanno partecipato alle elezioni (abbiano votato a destra, a sinistra o scheda bianca) determinando così la maggioranza politica che ha piena legittimità a governare questo paese.
Se una riforma della giustizia servisse anche solo a dissuadere da questi sconfinamenti irrispettosi della democrazia chi ha il delicatissimo potere di decidere della libertà delle persone, sarebbe la benvenuta.