Giuseppe Videtti per "la Repubblica"
Boy GeorgeA mezzanotte la pista è deserta. Per il popolo dei nottambuli è ancora l´alba. I giovani cominciano a sciamare dentro la discoteca verso l´una, una processione nella buia periferia milanese prima di essere strappati al silenzio da quel suono denso sparato da un potente sistema hi-fi, un paradiso infernale dove si comunica a gesti e l´unico modo per stabilire una sintonia è abbandonarsi all´inesorabile unz-unz che investe i corpi come un tornado.
Ai ragazzi non importa che stasera il dj sia un´ex popstar, uno che ha venduto milioni di copie, che oggi può permettersi di dire: «Se non ci fossimo stati Madonna e io non esisterebbe Lady GaGa». Il rito che si celebra in discoteca appartiene a un´altra religione, diverso da quello del concerto (ne ha in programma uno il 10 agosto in Sardegna, al Pata-Pata). Una signora fuori età cerca di farsi strada in quella massa di post adolescenti belli, eleganti e vistosi verso il camerino dove Boy George aspetta l´ora di salire in consolle. «Voglio un autografo, era un idolo ai miei tempi».
Boy GeorgeMa quel che resta di una pop star da milioni di copie vendute, quando il ciclone Culture Club invase le classifiche di mezzo mondo nei primi anni Ottanta, può ancora permettersi una guardia del corpo, e la signora non arriverà mai a quella porticina (salvo poi avventarsi su George quando l´artista attraversa il corridoio per raggiungere il suo angusto teatrino).
«Intorno al 1987 ho scoperto il potere della musica dance e ho cominciato a lavorare come dj. Il successo dei Culture Club si era affievolito, la musica era cambiata», racconta Boy George, che tra due giorni compie cinquant´anni. Siamo in una stanza insonorizzata all´interno del cubo di suono. Dalla sala arrivano solo i bassi, un inquietante stump stump che fa tremare ogni cosa. George, che prima di riciclarsi come dj ha attraversato l´inferno (depressione, droga, due arresti, galera, foto di lui calvo e col doppio mento sbattute in prima pagina dai tabloid), ha un make up pesante che cancella rughe e dolori.
CULTURE CLUBIndossa un cappellone verde col teschio glitterato in fronte, eye liner degno di Nefertari. Ha perso quasi tutto ma non il buonumore. La risata è quella di sempre, sguaiata e contagiosa. «Alla fine del decennio le cose erano completamente cambiate e a un certo punto mi sentii schizzato fuori. Ero disperato. Mi veniva la voglia di sbattere la testa contro il muro in cerca di un´ispirazione che fosse in linea coi tempi. A quel punto l´acid house venne in mio soccorso.
Era la musica che aveva ridefinito il paesaggio sonoro di Londra, che aveva cambiato il ritmo di tutti i club della capitale. Era più di una moda, era un movimento, ed era eccitante farvi parte. Anche per me che ero stato una pop star partecipare ai rave clandestini fu una sorta di liberazione. Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo di nuovo un essere umano».
LADY GAGABoy George (al secolo George Alan O´Dowd, figlio di irlandesi trapiantati nel Regno Unito) non ha mai perso un pollice di popolarità in patria. Nel 2002, secondo un sondaggio della Bbc, era al numero 46 delle persone più amate d´Inghilterra, appena sei posti sotto Charles Dickens. Sulla sua storia hanno scritto un musical, Taboo, che è andato in scena per due anni nel West End e per oltre tre mesi a Broadway.
Ma la vita post - Culture Club di George è stata travagliatissima: arrestato per possesso di eroina nel 1986; denunciato nel 1995 da Kirk Brandon dei Theatre of Hate (George rivelò nella sua autobiografia che erano stati amanti); nel 2005, finite le repliche di Taboo a Manhattan, viene beccato con la cocaina in casa dopo che aveva chiamato la polizia per denunciare un furto con scasso (che poi si rivelò falso); due anni fa si becca quindici mesi di carcere per aggressione e sequestro di persona ai danni di Audun Carlsen, un escort che aveva "dimenticato" ammanettato nel suo appartamento dopo un gioco erotico.
LADY GAGALe foto di George, trascurato e pingue in divisa da galeotto, fecero il giro del mondo. Chiunque ne sarebbe uscito a pezzi. Non lui. «Quando sbarcai a New York per Taboo mi divertii da matti, ma dopo le cento repliche avrei fatto meglio a ritornare a casa. Invece indugiai, restai in città senza niente da fare e troppo tempo a disposizione. Incominciai a cazzeggiare in giro, tornai nei soliti posti... in cerca della solita cosa, sì insomma, tornai a far visita al demonio, volevo vedere da vicino se era così cattivo come dicevano».
Scoppia in una risata esagerata che gli lascia una buona dose di rossetto sui denti davanti. «Quando fui catapultato nel firmamento del pop avevo diciannove anni. Non mi rendevo neanche conto di dove stessi andando e cosa volessero da me. L´altra sera un amico mi ha chiesto: col senno di poi consiglieresti a qualcuno di diventare famoso? Una domanda scivolosa. Difficile rispondere.
LADY GAGASe allora avessi avuto la saggezza che ho oggi avrei certo affrontato tutto con maggiore equilibrio, mi sarei divertito e non mi sarei fatto troppe seghe mentali. Da giovane invece non riesci ad apprezzare le cose che hai. Tutto quello che ti arriva dalla vita - anche se è un dono enorme - ti sembra dovuto. A vent´anni è tutto un fottuto dramma. Anche se hai una casa magnifica e milioni di sterline sul conto corrente».
La vita infatti non era facile neanche all´epoca dei Culture Club. George aveva una tresca con il batterista Jon Moss e pretendeva di mantenerla segreta. «Già, quello ingarbugliò non poco le cose. Fu un incubo nell´incubo», ammette. «In realtà tutti sapevano - gli altri del gruppo, i discografici, il management - ma facevano finta di non vedere. Come una mamma che sa che il proprio figlio è gay ma non ne vuole parlare - finché non ne parli è come se non fosse vero.
È l´atteggiamento della società nei confronti degli omosessuali. La mia storia "segreta" con Moss rendeva ogni cosa complicata: prenotare gli alberghi, scendere a colazione insieme. Ma c´era anche il lato divertente, l´entusiasmo di una passione travolgente. Io sono uno che quando finisce l´amore resta legato ai suoi uomini. Credo di amare Jon più adesso di allora. Si è sposato, ha divorziato, è padre. Mi prendo cura di lui più adesso di allora. Spogliato dalla passione e dai drammi, l´amore che resta è puro, disinteressato. Non voglio farci sesso, non voglio sposarlo, ma mi piace e ci tengo a lui. Non è anche questa una specie d´amore?».
ELTON JOHN CON IL "MARITO" DAVID E IL "FIGLIO" ZACHARYIl pensiero vola agli anni d´oro, quando il look dei new romantic - la corrente più edonistica che la storia del pop ricordi - diventò la cosa più cool di Londra. «E del mondo», ribatte George. «Anche con l´Italia fu amore a prima vista, altro che Take That!». Racconta senza pudore (come all´epoca confessò di aver avuto un flirt con Elton John) di aver perso la verginità proprio con un italiano. Aveva sedici anni, era un punk annoiato su un sedile della metropolitana di Londra.
Il signore di fronte, impeccabile nel suo Burberry, gli fece delle avance. «Rischiò grosso», scherza George, «l´età del consenso per gli omosessuali era diciotto anni all´epoca. Mi disse che si chiamava Dany, che era un cantante famoso. Non ho mai saputo se fosse vero, probabilmente no. Ricordo solo che era tenerissimo, mi baciava le dita e mi cantava canzoni italiane con una bellissima voce. Per farla breve: quella stessa notte mi portò a una festa molto trendy. C´era anche il mimo Lindsay Kemp, che ora vive in Italia. Ho rivisto Lindsay sette anni fa, ricordava ogni particolare: "Hey, ma tu non eri l´amante di Dany?"».
ELTON JOHN E MARITORacconta che l´omosessualità non è mai stata un vero problema. Fece coming out in famiglia a quindici anni, e nessuno ne fece un dramma. «Mia madre è la mia eroina», mormora. «Anche mio padre, pace all´anima sua, cercò in tutti i modi di aiutarmi. Era un uomo brillante, ma anche una contraddizione vivente. Sapeva essere dolcissimo e terribile. Imprevedibile, come me. Non sono uno imprevedibile io?
Era un piacione, aveva una bella voce quando cantava. Mia madre, poveretta, ne ha dovute ingoiare... Pensi che dopo quarantatré anni di matrimonio la piantò per un´altra. Non riuscivo a crederci. Il più grande crimine che abbia commesso. Io avevo quarant´anni quando vidi mia madre distrutta per quell´abbandono inaspettato. Lei lo amava, quando è morto si è occupata di tutto. Mi disse: l´ho odiato, quando mi ha lasciato ho smesso di amarlo all´istante... ma io sono una persona per bene, è pur sempre mio marito, il padre dei miei figli. Mamma ha una morale di ferro.
Piervittorio TondelliOra che è anziana si è totalmente rifugiata nella religione, non si perde una messa né un battesimo o una comunione di qualsiasi lontano parente. Dopotutto siamo irlandesi e abbiamo anche un prete in famiglia, padre Richard». Si abbandona a un´altra risata. «Vede, quando si parla di equilibrio io vacillo. La mia vita non è propriamente equilibrata. Ma è la mia vita.
Ti accorgi della differenza fra l´io malato e quello sano solo quando esci fuori dal tunnel, dopo i periodi di disintossicazione o di detenzione. Allora pensi: come ho potuto farlo? come ci sono cascato? Non ho avuto la religione cattolica cui appoggiarmi come mia madre. Ho vagato tra buddismo e induismo, poi mi sono reso conto che c´è un´energia superiore di cui tutti facciamo parte, che ognuno di noi è un pezzetto di Dio. Ogni fottuta cosa a questo mondo è un frammento di Dio».
Piervittorio TondelliLo chiamano. È l´ora di far scatenare la pista. «Non sono finito. L´anno prossimo riunirò i Culture Club per il trentennale», annuncia. «Anche se i tabloid mi hanno sempre dipinto come un fottuto depresso, sono uno che sa sopravvivere a una tragedia e anche riderci sopra. Quelli non hanno capito che sbattendomi in prima pagina mi hanno fatto solo la grazia di sopravvivere come celebrità. Ma credete a me, sono più di un titolo a cinque colonne». Alla fine del set una ragazza gli porge l´invito della serata da autografare.
C´è una foto di George con il viso avvolto da un telo blu come un tuareg. In primo piano gli occhi bellissimi, viola come quelli di Liz. Gli occhi che allo scrittore Piervittorio Tondelli (che sul mensile Rockstar firmava una rubrica intitolata Culture Club) fecero scrivere (e si riferiva a Boy): «Ogni generazione ha la Taylor che si merita».