Fabrizio Massaro per "Milano Finanza"
ENRICO BONDIUna cosa è certa: dal punto di vista della riservatezza l'operazione Lactalis è stata un successo. Mentre mercato, osservatori, politici e stampa si lambiccavano sulla strategia che i fondi esteri Skagen MacKenzie e Zenit avrebbero seguito una volta preso il controllo di Parmalat e si interrogavano su quali possibilità Enrico Bondi avesse di contrapporsi alle mosse degli stranieri, Lactalis e il suo advisor finanziario, Société Génerale, preparavano silenziosamente la discesa in Italia.
Confidando in un supporter d'eccezione: Enrico Bondi. Era proprio Lactalis il cavaliere bianco che si era offerto all'amministratore delegato di Collecchio per dargli la forza di opporsi ai tre fondi che volevano cacciarlo dalla guida del gruppo alimentare. Sul piatto il colosso guidato da Emmanuel Besnier aveva tre buoni argomenti: un pacchetto di azioni da acquistare, una lista da presentare, e la presidenza di Parmalat da assegnare all'ex commissario straordinario, l'uomo che aveva risanato il gruppo dopo il crack da 14 miliardi del dicembre 2003.
Che Lactalis e Bondi avessero avuto qualche contatto, successivamente al patto parasociale dei tre fondi di fine gennaio, era emerso finora solo come indiscrezione poco circostanziata.
Ma adesso, dopo l'avvio dell'inchiesta della procura di Milano sulla scalata dei francesi e con l'opa da 4,7 miliardi ormai aperta, una fonte finanziaria molto vicina al dossier ha ricostruito per Milano Finanza un quadro totalmente inedito della trattativa Bondi-Lactalis.
Sia Bondi sia il suo legale, l'avvocato Giuseppe Lombardi, richiesti giovedì 26 da Milano Finanza di un commento, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni né indicare il loro punto di vista.
La trattativa segreta durò circa un mese. Coinvolse come possibili finanziatori (oltre che come soci) Mediobanca e Intesa Sanpaolo. Vide la messa a punto di un piano industriale da parte di Lactalis e SocGen finito sulla scrivania di Bondi. Portò alla stesura di una lista per il cda alternativa a quella dei fondi (venne addirittura incaricato un head hunter per l'indicazione dei candidati). Si spinse fino alla bozza di un patto parasociale fra Lactalis e la stessa Intesa e culminò con un incontro ai massimi livelli tra i due protagonisti del mega-affare, cioè Bondi e Besnier.
GIULIO TREMONTITutto ciò è avvenuto tra metà febbraio e metà marzo, senza che filtrasse il minimo rumor di mercato sull'attivismo della multinazionale francese, in quel momento impegnata in patria nella gara per la conquista di Yoplait.
Anche Bondi agiva nel silenzio.
Ufficialmente si poneva come soggetto passivo di un'eventuale ricandidatura; in realtà trattava con i francesi ma contemporaneamente premeva sul governo per ottenere norme a favore di Parmalat, come quella nel decreto Milleproroghe che congela fino al 2020 la distribuzione dei dividendi di Parmalat nella misura del 50% degli utili annui.
La rivelazione della trattativa Lactalis-Bondi apre uno scenario del tutto inedito e interessante anche alla luce dell'inchiesta della procura di Milano sulla scalata del gruppo francese a Parmalat e sulle mosse dei vari protagonisti della vicenda. Un'inchiesta nata da un esposto presentato al pm Eugenio Fusco proprio da Bondi, che evidentemente il magistrato ha ritenuto meritevole di approfondimento, tanto da avere iscritto nel registro degli indagati Patrizia Micucci, capo dell'investment banking di SocGen, Carlo Salvatori, presidente di Lazard (advisor dei fondi esteri) e Massimo Rossi, capofila della lista dei fondi in cda, per aggiotaggio, e Fabio Cané, responsabile dei progetti speciali e del private equity di Intesa Sanpaolo, nonché marito di Micucci, per insider trading.
Con loro sono state indagate le banche Lazard, Intesa Sanpaolo e SocGen, per la legge 231. Da due settimane Fusco sta ascoltando uomini delle banche, consulenti e altri testimoni per ricostruire i vari passaggi che hanno portato alla contrapposizione tra fondi, Lactalis e la costruenda cordata italiana che ruotava attorno a Intesa Sanpaolo e a Ferrero.
Emmanuel BesnierIn procura la parola d'ordine è però cautela: se da un lato non tutto è chiaro nella vicenda Parmalat, dall'altro non è affatto detto che le mosse e i comportamenti dei vari personaggi coinvolti abbiano integrato delle fattispecie di reato. Per questo l'inchiesta pare destinata a non chiudersi entro breve, visto che dovranno essere sentiti anche i quattro indagati.
Un'integrazione tra Lactalis e Parmalat era da sempre la soluzione di scuola per ogni investment banker. «Anche un giovane analista appena entrato in una banca d'affari avrebbe visto le enormi sinergie possibili», commenta un importante banchiere d'affari che ha studiato il dossier.
Parmalat era la classica preda per un'operazione di M&A: public company senza un azionista di riferimento, con buoni margini (circa il 9% di ebitda) considerato il suo business, senza debiti e anzi con ben 1,4 miliardi di liquidità in pancia, frutto delle transazioni con le banche. Capitali che Bondi per anni aveva però rifiutato di utilizzare per la crescita dell'azienda.
Era inevitabile dunque che a Besnier potesse essere proposto un investimento su Collecchio. Anche il momento era ideale: Parmalat si preparava al rinnovo del cda e, come era già successo nei due mandati precedenti da quando il gruppo era tornato in borsa nel 2005, bastava raccogliere una quota anche piccola di Collecchio per comandare. Così era avvenuto per esempio nel 2005, quando Lehman Brothers votò Bondi sindacando l'8% del capitale. E analogamente era accaduto nel 2008, quando la lista Bondi fu presentata dal 12% dei soci.
È in questo contesto che Societe Générale, come tante altre banche d'affari, cominciò a studiare Parmalat, proponendo il dossier a diversi potenziali investitori: fra questi i canadesi Saputo, gli americani Kkr, gli italiani Findim, Exor, Clessidra, perfino i cinesi del colosso alimentare Mengniu. E naturalmente i francesi Lactalis, cui il dossier venne proposto nel novembre 2010. Lo scenario Parmalat fino a quel momento appariva stazionario. Fino a quando, il 26 gennaio, non vennero allo scoperto i fondi Skagen, MacKenzie e Zenit con l'accordo di coordinamento che vincolava il loro 15,3% alla presentazione di una lista per il cda. Di fatto, un remake delle elezioni precedenti (Zenit era già presente nel patto del 2008 che candidò Bondi per la seconda volta). Con una differenza però sostanziale: questa volta nella lista Bondi non c'era.
Carlo SalvatoriEra l'attacco a Collecchio che tutti paventavano ma che non si capiva da che parte sarebbe arrivato. La reazione dell'amministratore delegato non si fece attendere. Il 27 gennaio, all'indomani dell'indiscrezione del Corriere della Sera sulla mossa dei fondi, sul suo tavolo arrivò la proposta di SocGen di sostenerlo nella costituzione di una cordata di azionisti per una lista alternativa che lo ricandidasse. Nello stesso tempo la banca francese continuava a corteggiare Lactalis, nonostante la ritrosia di Besnier a lanciarsi da solo in un'avventura finanziaria che poteva rivelarsi molto onerosa.
Come entrare in Parmalat vincendo la forza d'urto dei fondi? L'idea di SocGen fu di coinvolgere anche le banche italiane: Lactalis avrebbe potuto proporre un'operazione amichevole nell'ottica di mantenere in Italia la Parmalat. Così decise di prendere contatto con Mediobanca e Intesa Sanpaolo, oltre che con Bondi, che avrebbe dovuto essere il candidato alla presidenza. La mossa dei fondi era infatti vista come un attacco, oltre che a Bondi, alla stessa società con l'obiettivo di cedere le azioni a un grande gruppo estero oppure di attingere alla cassa di Parmalat, minandone così la capacità di fare acquisizioni.
Bondi però non stava certo con le mani in mano. Il 2 febbraio era già stato una prima volta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta (che il 27 gennaio aveva invece ricevuto Salvatori, advisor del fondi esteri). Che cosa avesse sollecitato Bondi al governo lo si scoprì due settimane dopo: il 15 febbraio venne inserito nel decreto Milleproroghe un emendamento che vincolava fino al 2020 la distribuzione dei dividendi Parmalat al 50% degli utili. Un modo per sventare eventuali assalti alla cassa di Collecchio. Da parte dei fondi, ma non solo.
Nel frattempo la cordata Bondi era in gestazione: MF-Milano Finanza del 17 febbraio scrisse di un possibile partner industriale che avrebbe potuto acquistare il 29% di Collecchio per gestire la società, con Bondi presidente. Non si sapeva ancora, ma il partner industriale era proprio Lactalis.
Patrizia MicucciIl primo incontro tra francesi e italiani, dopo i contatti preparativi avviati da SocGen e Lactalis una settimana prima, avvenne lunedì 21 febbraio. Da una parte le banche, cioè Piazzetta Cuccia, la Ca' de Sass e SocGen (ed è in questa occasione che ebbero modo di sedersi allo stesso tavolo Patrizia Micucci e Fabio Cané), dall'altro lato i vertici dei due gruppi. Per la prima volta si incontrarono, faccia a faccia, Bondi e Besnier. Per loro un incontro riservato, cui presenziò soltanto Antonio Sala, presidente di Lactalis Italia. Il summit andò a buon fine: Bondi si mostrò interessato, tanto da chiedere una lettera con i punti dell'operazione e il piano industriale; Mediobanca e Intesa Sanpaolo diedero la disponibilità a finanziare l'ingresso di Lactalis in Parmalat e a votare la lista dei francesi con Bondi presidente. Il secondo faccia a faccia, tra Sala e Bondi, avvenne una settimana dopo, il 28 febbraio, per discutere della prima bozza di piano industriale e lo schema dell'operazione.
La trattativa insomma proseguiva, e anche velocemente. L'1 marzo Lactalis inviò all'avvocato Lombardi una nuova bozza della lettera che recepiva le richieste di Bondi, mentre SocGen metteva a punto il patto parasociale con Intesa e la proposta di finanziamento con la banca guidata da Corrado Passera e la merchant bank presieduta da Renato Pagliaro. L'idea di Besnier era di comprare sul mercato il 5-10% di Parmalat, mentre Intesa e Mediobanca avrebbero dovuto rastrellare attraverso degli equity swap le azioni che poi sarebbero state girate a Lactalis (praticamente lo schema poi effettivamente utilizzato dal gruppo francese). Con le azioni in mano, i francesi avrebbero poi potuto trattare l'acquisto del 15% dei fondi da una posizione di forza.
Ma quanti, in quel momento, sapevano che Lactalis era in campo, a parte Bondi e le banche italiane?
Le indiscrezioni sul possibile arrivo dei francesi cominciavano a circolare, mentre parallelamente prendeva piede l'idea che fosse necessaria una cordata italiana che salvasse «l'italianità» della Parmalat. I tempi erano sempre più stretti, visto che l'assemblea Parmalat era fissata per il 12-14 aprile e le liste andavano depositate entro il 18 marzo. L'1 marzo fu il Corriere della Sera ad accennare a «una multinazionale francese» che avrebbe potuto calare su Collecchio; il giorno successivo (2 marzo) il Sole 24 Ore scrisse che i fondi erano in contatto con Lactalis per vendere il pacchetto del 15%: una notizia seccamente smentita dai fondi, che presentarono anche un esposto in Consob e alla magistratura. Fra gli interessati a una soluzione italiana, il primo a venire allo scoperto fu il fondo Charme della famiglia Montezemolo, l'interesse però svanì nel giro di 24 ore. Ma ormai il segnale era dato: già si studiava una cordata italiana, alternativa ai fondi ma anche alternativa a Lactalis. Anche Intesa cominciava a puntare i piedi nei confronti del piano dei francesi, chiedendo loro più tempo per poter decidere sul dossier. Mediobanca invece continuava a manifestare interesse a finanziare l'operazione. Solo sul voto alla lista Pagliaro, l'interlocutore di Piazzetta Cuccia con Lactalis e SocGen, poneva una condizione: «Se Bondi non ci sta, noi non vi votiamo». L'ad di Parmalat, ancora il 4 marzo continuava però a dirsi interessato, tanto da suggerire a Lactalis di incaricare un head hunter (Spencer Stuart) per predisporre la lista per il cda. A recapitare il suggerimento di Bondi fu Pagliaro, nel corso di un incontro con Sala.
GIANNI LETTA E LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLOAgli inizi di marzo dunque i francesi facevano sul serio, mentre il fronte italiano dei suoi potenziali alleati cominciava a scricchiolare. Nonostante questo il lavoro con Bondi andava avanti: la lista dei candidati di Lactalis per il cda, con Bondi presidente, venne così limata insieme con l'avvocato Lombardi nel corso del primo weekend di marzo. Nonostante dubbi e perplessità, la macchina girava ancora. Almeno fino al mercoledì successivo.
Il 9 marzo scese in campo il governo. Bondi tornò a Roma per incontrare nuovamente Letta a Palazzo Chigi e poi anche il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani. È forse in quel momento che il meccanismo si inceppò, anche per le pressioni dell'esecutivo e del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, sulla necessità di mantenere in Italia il controllo di Parmalat. Così l'ex commissario prese un'altra strada, nonostante i tempi sempre più stretti per la presentazione di una lista italiana.
L'11 marzo i fondi presentarono la loro lista. Assogestioni aveva già annunciato la propria, di minoranza. A una settimana dalla scadenza del termine, le liste contrapposte erano già due. Sul mercato l'attesa era tutta per la mossa di Bondi. Avrebbe trovato un azionista disposto a candidarlo, e con una forza tale da superare i fondi? E gli italiani avrebbero avuto la forza di mettere sul piatto almeno 800 milioni per comprare dai fondi o sul mercato le azioni necessarie? E sarebbe stato un industriale puro o una cordata finanziaria?
Bondi fino a quel momento aveva trattato in segreto con Lactalis, che nel frattempo aveva già messo in cantiere gli equity swap con SocGen per rastrellare i titoli Parmalat. Ma sabato 12 marzo cambiò idea e ruppe con Besnier. L'avvocato Lombardi riferì a Sala che Bondi non era più interessato al progetto Lactalis, con i quali pure aveva trattato praticamente per un mese. Era il via libera all'operazione «italianità».
parmalat GetContent asp jpegIl primo segnale lo lancia Passera, lunedì 14 marzo: «Se ci fossero le condizioni per piani industriali seri che tengono in Italia attività importanti, noi siamo sempre molto calorosi. Pensiamo che Parmalat sia una cosa importante, un bel marchio italiano, che bisognerebbe trovare il modo di valorizzarla al meglio». Il lavoro per la cordata è dunque iniziato. Ma allo stesso tempo è cominciato anche il rastrellamento di SocGen per conto di Lactalis. Da lunedì 14 a venerdì 18 marzo il titolo letteralmente si infiamma con oltre il 25% del capitale che passa di mano e un prezzo che balza da 2,38 a 2,60 euro. Dopo di che ogni giorno riserva un colpo di scena. Mercoledì 16 MF-Milano Finanza rivela che Bondi sarà il candidato presidente nella lista che Intesa, azionista al 2,5% di Collecchio, si appresta a depositare. Il giorno successivo, giovedì 17, dopo una giornata di acquisti massicci di titoli Parmalat, Lactalis esce finalmente allo scoperto con l'11,4% di Parmalat. E grazie agli equity swap con SocGen può arrivare subito al 14% di Collecchio. Insomma, è a un passo dai fondi. Se acquistasse da loro il 15,3%, Lactalis arriverebbe a un soffio dal 30%, assicurandosi così il controllo di Parmalat.
È su ciò che accade in quel weekend che si concentra l'inchiesta della procura di Milano. Il pm Fusco ipotizza fra l'altro che venerdì 18 marzo Canè avrebbe rivelato alla moglie il prezzo ipotizzato da Intesa per acquistare le azioni Parmalat in mano ai fondi. Gli indagati però respingono con decisione l'accusa, pronti a provare in ogni sede la loro buona fede, e si preparano a rispondere al magistrato.
Il blitz dei francesi spiazza Intesa Sanpaolo, che nel frattempo sta lavorando con Ferrero per una cordata che rilevi le azioni dei fondi. Nel weekend dunque si scatena la caccia a quel 15%. Skagen, MacKenzie e Zenit si trovano a dialogare con gli italiani e con i francesi. Con Intesa è già aperto un canale indiretto, attraverso il loro advisor Lazard. Nel weekend la banca d'affari viene contattata da Intesa chiedendo un incontro con i rappresentanti dei fondi: gli italiani sono intenzionati a comprare. Ci sono anche abboccamenti sul prezzo: i fondi vogliono più di 3 euro, Intesa è pronta a trattare su basi più basse.
Visto che i margini per un accordo ci sono, che le discussioni sono serie e il governo preme per una soluzione italiana, i rappresentanti dei fondi (David Tiley per MacKenzie, Torkell Tveitevolleide per Skagen e Peter Thelin per Zenit) decidono di volare in Italia, dove arrivano lunedì 21 per chiudere la partita. A comprare dovrebbe essere il gruppo Ferrero, sostenuto da Intesa. Ma anche Lactalis si muove quello stesso venerdì, chiedendo all'avvocato Bruno Cova dello studio Paul Hastings, legale dei fondi, un contatto con i suoi clienti per poter presentare un'offerta. L'incontro viene fissato per il lunedì pomeriggio tra lo stesso Besnier e i fondi, visto che i tre manager sono già in volo per l'Italia. Insomma, una corsa contro il tempo a chi tratta prima con i fondi.
Parmalat a Piazza Affari da Milano FinanzaMa il lunedì mattina il fronte italiano ha un sussulto: Ferrero decide che prima di acquistare dai fondi è necessario rilevare il pacchetto di Lactalis, per evitare contrasti a livello industriale tra i due gruppi. Besnier, in volo per Milano, si accorda con Ferrero per un appuntamento a Parigi il martedì mattina. I fondi, a questo punto, si trovano senza interlocutori italiani.
Così Lactalis ha gioco facile: Besnier, dopo un'offerta iniziale di 2,70 euro, si chiude in una stanza dello studio Paul Hastings con Sala e i tre manager dei fondi, senza advisor legali e finanziari. Intorno alle 23 l'accordo è trovato a 2,80 euro. Lactalis ha il 29% di Collecchio.