Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera"
Simone LuertiEra una «suggestione forte» l'accusa agli stilisti Dolce e Gabbana di aver frodato il fisco per 800 milioni di euro nel cedere la proprietà dei loro marchi a una società appositamente costituita in Lussemburgo, «ma più la si guarda da vicino, da tutte le angolature, e più resta irrimediabilmente suggestione» : così il giudice Simone Luerti motiva il proscioglimento degli stilisti difesi dagli avvocati Massimo Dinoia e Fortunato Taglioretti, a partire dal fatto che «l'operazione di cessione dei marchi» è per lui stata «reale, effettiva e non simulata» , dettata dalla preferenza delle banche per un assetto aziendale che restasse separato dai destini personali dei due stilisti.
dolce-gabbanaL'Agenzia delle Entrate contestava che i marchi, compravenduti per 360 milioni su stima della società PriceWaterhouseCoopers, avrebbero invece avuto un valore reale di un miliardo e 193 milioni, con conseguente risparmio fiscale. Il giudice obietta che le stime erano le più varie, al punto che «la stessa Guardia di finanza, utilizzando i criteri di PriceWaterhouseCoopers, indica la cifra massima di circa 550 milioni, meno della metà della stima dell'Agenzia delle entrate».
Tribunale di MilanoIn più il giudice sottolinea «una inammissibile doppia misura» : da un lato «il prezzo di cessione fissato in regime di libertà contrattuale» viene letto dall'Agenzia delle entrate come «sospetto, fittizio e "abusivo"perché i contraenti sarebbero parti correlate» , dall'altro si pretende che «la stima dell'Agenzia delle entrate, che è controparte direttamente interessata e costituita parte civile proprio per recuperare la tassazione sul maggior valore, esprima una certezza degna del processo penale.
ATTILIO BEFERANon è un modo di ragionare che può essere condiviso» per il giudice. Il quale aggiunge che, «nel bilanciamento tra libertà di iniziativa privata e dovere di concorrere alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva» , fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge «l'amministrazione finanziaria non può di regola utilizzare, come unico elemento di prova dell'evasione, la discrepanza tra il corrispettivo dichiarato e il valore normale del bene, pena la violazione dell'intangibilità dell'autonomia contrattuale ma anche del principio costituzionale della capacità contributiva» .