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MÜLLER GALLEGGIA SULLA LAGUNA - L’ARRIVO AI BENI CULTURALI DI GALAN SIGNIFICA CONFERMA SICURA PER BARATTA ALLA BIENNALE E PER L’ATTUALE DIRETTORE DELLA MOSTRA DEL CINEMA (IL FESTIVAL DI ALE-DANNO ASPETTA E SPERA) - SEPOLTO IL PASSATO MAOISTA LO ATTENDE UN FUTURO DA NEO-DEMOCRISTIANO: NOMINATO DA URBANI, RICONFERMATO DA RUTELLI, TOLLERATO DA BONDI, MÜLLER È IL “DOGE DEL CINEMA” - MA C’È MARETTA PER LA SUA PROPOSTA (BLOCCATA DA BARATTA) DI BERTOLUCCI E BELLOCCHIO (NEMICI DEL BANANA) COME PROTAGONISTI DELLA PROSSIMA EDIZIONE…

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1 - MÜLLER, UN MANDARINO PER TUTTE LE STAGIONI...
Michele Anselmi per "il Riformista"

Marco Muller

Marco Müller, direttore della Mostra del cinema di Venezia, è un intellettuale che si esprime così in pubblico. «Abbiamo finito per scoprire che il "vestito senza cuciture del visibile" occultava le cuciture della mediazione, del gesto e del lavoro dello sguardo nel mondo. E che sono le cuciture a fare il cinema, e anche le pieghe: perché esso opera sul punto di contatto tra due metafore, quella del tessere e quella del cucire, che si impegna a confondere, come fa il sogno».

ALEXEY MESHKOV MARCO MULLER

Rubando il titolo a una fortunata rubrichetta del "Foglio" che sfotte l'eloquio immaginifico di Nichi Vendola, viene quasi da pensare: Marco, ma che stai a di'? Solo che il 57enne Müller è tante cose insieme: cinefilo accanito e abile tessitore di alleanze, sinologo sopraffino e organizzatore culturale con discreto pelo sullo stomaco. È talmente bravo che anche stavolta riuscirà a sfangarla.

Marco Muller

La 68ª edizione della Mostra (31 agosto-10 settembre) dovrebbe essere l'ultima da lui pilotata, ma tutti i segnali dicono il contrario: è possibile, anzi probabile, che un nuovo mandato quadriennale lo tenga stretto alla Biennale. Specie ora che il ministro Sandro Bondi ha deciso di togliere il disturbo per lasciare il dicastero dei Beni culturali al veneto Giancarlo Galan, gran sostenitore del presidente Paolo Baratta.

PAOLO BARATTA

Del resto, dopo qualche vivace dissidio su singole questioni di gestione della Mostra, presidente e direttore pare abbiano trovato un decente modus vivendi. «Dopo Müller cosa accadrà? Vedremo... Ci può essere qualcuno che vuole sollevare confusione, spesso le voci vengono da chi desidera una cosa...» ha fatto sapere Baratta.

GOFFREDO BETTINI

In verità l'unico motivo di «zizzania» - per usare una parola cara al presidente della Biennale - l'ha creato Müller, dichiarandosi disponibile a passare armi e bagagli al Festival del cinema di Roma, a partire dal 2012, pur avendo detto peste e corna della kermesse capitolina. Feroce fu il sarcasmo di Goffredo Bettini. Ma ora l'ipotesi sembra tramontata, anche se i due sponsor dell'operazione-trasloco, cioè il sindaco Alemanno e la governatrice Polverini, non avrebbero rinunciato all'idea.

RENATA POLVERINI GIANNI ALEMANNO

In realtà è a Venezia che Müller si sente a casa. Non a caso due anni fa la rivista "Gentleman" lo ribattezzò "Doge del cinema". Ma c'è chi preferisce dargli del "mandarino cinese" o del "mercante levantino". Del doge ha l'autorità riconosciuta, del mandarino l'arte diplomatica, del mercante la lucida scaltrezza. Infatti dirige da sette anni la Mostra, senza troppe scosse, sempre in sella, forte di una legittimazione che gli viene dall'aver organizzato festival per tutta la vita: Torino, Pesaro, Rotterdam, Locarno, infine, dopo una proficua parentesi da produttore, Venezia.

SANDRO BONDI E MANUELA REPETTI

Dove arrivò nel 2004, da uomo di sinistra con trascorsi extraparlamentari, nominato dal ministro Urbani al posto dello "straniero" Moritz de Hadeln, troppo ingombrante e pure comunista. Riconfermato da Rutelli, fino all'anno scorso piaceva anche a Bondi. Poi è successo qualcosa, non solo a causa del palmarès congegnato da Quentin Tarantino nell'edizione 2010, e per un attimo sembrò che il direttore fosse caduto in disgrazia.

Non era così. D'altro canto, l'uomo ci ha preso gusto. Ogni tanto annuncia di voler tornare a produrre film per l'amico Benetton, ma volete mettere guidare la Mostra? Temuto e corteggiato, sa muoversi tra le insidie festivaliere trasformando ogni mossa in vittoria, anche quando gli rifilano fregature o gli negano i film.

Certo ha dovuto affrontare alcune emergenze, in molti non gli hanno perdonato lo sbarco al Lido di Hugo Chávez, il caudillo pop non proprio democratico accolto come una star per un agiografico documentario di Oliver Stone. Ma, sconfiggendo la naturale permalosità e reprimendo le intemperanze mediatiche, l'uomo ha scoperto la virtù tutta democristiana della moderazione: tanto pensa il pragmatico Baratta a risolvere le grane politiche.

Cesare Battisti

Sarà anche per questo che Müller si sente al sicuro. Da destra gli danno del "sinistro", del "maoista", del "radical-chic", ma bisogna ammettere che con lui la Mostra ha recuperato credito internazionale, altrimenti Hollywood non lo tratterebbe così bene. È possibile che il liberale Urbani, prima di chiamarlo, abbia pensato a qualcun altro, ideologicamente più affine, diciamo. Ma alla fine, svanito il sogno ridicolo di arruolare Martin Scorsese, fu Müller a imporsi sugli altri candidati.

GIANFRANCO FINI

Perfino l'imprudente firma in calce a una farneticante petizione pro Cesare Battisti non ebbe seguito: con abile mossa, il neodirettore si sfilò, spiegando, pochi giorni dopo la nomina, di non riconoscersi nel testo. Aveva dato il suo sì al telefono.

Anche sul "maoista" bisogna intendersi. Vincitore di un'ambita borsa di studio, appena ventenne volò a Pechino, nello scorcio finale della Rivoluzione culturale, per studiare all'Accademia di scienze sociali. S'aspettava di abbeverarsi alla fonte del comunismo, invece, al grido «sono discipline borghesi», lo spedirono in Manciuria a occuparsi di «letteratura di massa», degli undici modelli del romanzo popolare. Non fu, ammette, l'esperienza sognata. Ancora oggi, scherzandoci sopra, si confessa "marxista-zeninista", non leninista, cioè in bilico tra il libretto rosso di Mao letto in cinese e i sutra del buddismo tibetano.

Paolo Mereghetti

Ma sono civetterie intellettuali. Alle serate di gala adesso sfodera un elegante tuxedo, detto "Nehru jacket", donatogli da Armani, collo alto e stretto, ideale per chi non sopporta il papillon. I film cinesi, giapponesi, coreani e thailandesi restano la sua passione, ma li dissemina nel menù con maggiore parsimonia di un tempo, ben sapendo che la cinefilia sfrenata va combinata al glamour in salsa occidentale, sennò giornali e tv si scocciano.

Così, Mostra dopo Mostra, coltivando con sapienza i rapporti internazionali e concedendo ogni tanto qualcosa ai politici italiani, «il nuovo Marco Polo» (Baratta dixit) ha saputo capitalizzare il consenso bipartisan di cui gode. Müller teorizza che «non vale la pena di interessarsi al cinema se non lo si considera sinonimo di libertà, tolleranza e uguaglianza». E aggiunge che «il cinema non ha bandiere, se non quelle della bellezza e dell'invenzione».

WALTER VELTRONI

Programma tanto condivisibile quanto generico, che il direttore poliglotta (parla otto lingue, incluso il cinese) con il culto di Godard infiocchetta ogni anno inventandosi qualche astruseria per motivare le sue scelte. Estrose o noiose, audaci o punitive, a seconda dei punti di vista.

Così quello che fu definito "il khmer rosso del film d'autore" con gli anni è diventato più ecumenico, lesto a onorare il cinema italiano moltiplicando le sezioni, attento a cautelarsi sul fronte istituzionale (ma sottoscrivere il Manifesto d'Ottobre di Gianfranco Fini «per una rinascita della res publica e per un nuovo impegno politico-culturale» s'è rivelata una scelta forse incauta).

Purtroppo è il carattere a fregarlo. Non per niente l'ex presidente della Biennale, Davide Croff, lo paragonò a Zidane: cioè un fuoriclasse che ogni tanto dà qualche testata di troppo, e non al pallone. Ne sanno qualcosa Paolo Mereghetti del "Corriere della Sera" e Natalia Aspesi di "la Repubblica", accusati su "Variety" di svolgere male il loro lavoro di critici. Mereghetti l'ha querelato per calunnia, la Aspesi l'ha mandato a quel paese.

CARLO FRECCERO

A cadenza regolare annuncia che tornerà a fare il produttore per sbrigare il lavoro rimasto in arretrato, però poi un piccolo demone interiore lo spinge a litigare con l'universo mondo, evocando non ben definiti «sistemi di lealtà rispetto alle produzioni e alle distribuzioni», mettendo sotto accusa «l'abitudine tutta italiana di incarichi accumulati e trasversali» (come se anche tra i suoi collaboratori non fiorissero incarichi plurimi).

Amico di Walter Veltroni e Carlo Freccero, lettore fedele del "manifesto", il direttore ama citare il prediletto Deleuze: «Ciò che è nuovo è indimenticabile». Nel 2008 presentò così il cartellone della sua quinta Mostra, la prima sotto la presidenza Baratta: «Ci siamo proposti di smettere, una volta per tutte, di guardare al cinema come a una bussola infallibile, non volevamo più chiedere al cinema di salvarci da un presente problematico, ambivalente, ambiguo: toccava a noi, invece, di starci dentro, non saltare i nuovi problemi (artistici e oltre) che pone l'epoca in cui ci è dato vivere». Appunto: Marco, ma che stai a di'?

2 - BERTOLUCCI, BELLOCCHIO E QUELLE DUE DECISIONI CHE IMBARAZZANO BARATTA...
Sara D'Ascenzo per "il Corriere del Veneto"

MARCO BELLOCCHIO - copyright Pizzi

La settimana scorsa aveva dovuto vedersela con le voci che volevano Marco Müller prossimo a passare armi e bagagli al festival del cinema di Roma dal 2012. Paolo Baratta, alle prese con i tagli da rasoio del ministero (- 40% il taglio prospettato) aveva svicolato ampiamente: «Dopo Muller cosa accadrà? Vedremo... Ci può essere qualcuno che vuole sollevare confusione, spesso le voci vengono da chi desidera una cosa...».

Poi ieri, da Mosca, dove è proseguito il road show per presentare la prossima Biennale d'Arte, Baratta è stato ritirato sulla giacca dai giornalisti sulla questione del direttore della Mostra del Cinema: «Ho sentito di qualche piccolo tentativo, qua e là, di mettere un po' di zizzania tra me e Müller. Vorrei dire che mettere zizzania fra me e Müller è tempo perso, nel modo più assoluto».

Questa volta, però, al centro della questione c'è qualcosa di più. Tutto nasce da un articolo scritto sul "Riformista" mercoledì scorso da Michele Anselmi, in cui si dava conto di una cosa piuttosto clamorosa: la proposta di Müller di avere Bernardo Bertolucci presidente di giuria della prossima Mostra e Marco Bellocchio Leone d'oro alla carriera. Due nomi di assoluto rilievo nella cinematografia italiana.

Il primo con un profilo internazionale perfetto per reggere una giuria di Venezia (notoriamente difficile da gestire, tendente a un'autonomia spinta, allergica al provincialismo), il secondo con una carriera con alti e bassi (soprattutto il periodo-Fagioli), ma sicuramente riconosciuto, soprattutto dopo "Vincere".

bertolucci bernardo

Insomma, due nomi importanti. Che però sarebbero bloccati da mesi per uno scrupolo del presidente Baratta. La questione è semplice. Cinque giorni dopo il palmarès di Quentin Tarantino, criticato in modo bipartisan, l'allora ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi disse che d'ora in poi avrebbe voluto «mettere il becco» anche sulla giuria di Venezia, visto che è lo Stato a finanziarla. Peccato che da settembre le cose siano un po' cambiate. E nella sede del ministero, a via del Collegio Romano, da quasi tre mesi il ministro non ci sia più: il 31 dicembre ha rassegnato le dimissioni direttamente ad Arcore e da allora nessuno l'ha più visto.

Nemmeno l'altro ieri alle celebrazioni per i 150 anni dell'unità d'Italia. Figurarsi se l'ha visto qualcuno della Biennale. I due nomi, insomma, sarebbero congelati in attesa che arrivi il nuovo ministro (Giancarlo Galan?). Anche perché non sono due nomi qualsiasi, ma due nomi fortemente connotati come «di sinistra».

Soprattutto Bertolucci. Le cui frasi su Berlusconi, giusto martedì scorso, non devono aver aiutato Baratta. Ufficialmente il rinvio è dovuto al bilancio. L'anno scorso, in effetti, la nomina di Tarantino fu fatta a maggio. Ma quella di John Woo alla carriera era già bella che cotta a mangiata addirittura a dicembre.

 


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