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BETTINO, \"L’ultimo imperatore\"! - A sorpresa Bertolucci, il comunista di \"Novecento\", riabilita Craxi rispolverando dalla memoria un episodio mai narrato: se \"L’ultimo imperatore\" si fece fu anche grazie al cinghialone che parlò col premier cinese e lo convinse a sostenere il film italiano contro un progetto della Cbs. E lui, venticinque anni dopo, lo riconosce - quella volta che confessò a Sergio Leone: \"mi piace come filmi il culo dei cavalli nei tuoi western\"...

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Michele anselmi per "il Secolo XIX"

craxi bertolucci

«Povero Craxi» sussurra a sorpresa Bernardo Bertolucci. Seduto sulla sedia a rotelle, berretto da baseball e t-shirt col logo della Mostra del nuovo cinema, edizione numero 47, il regista settantenne parla nel ventre del cinema-teatro Sperimentale, pieno in ogni ordine di sedie. In tanti non credono alle loro orecchie. S'alza un mormorio.

Appena pochi minuti prima il regista aveva spiegato, rispondendo alle domande di Bruno Torri e Adriano Aprà, che dopo "La tragedia di un uomo ridicolo", del 1981, era entrato creativamente in crisi. «Questo Paese mi sembrava sempre più stretto, chiuso alle cose del cinema, dell'arte e della letteratura che mi piacevano. Bolliva già un senso di corruzione e malaffare che sarebbe esploso, un decennio più tardi, con Tangentopoli».

Per questo, archiviato un film dal moraviano "1934" scritto con Ian McEwan, l'idea di andare in Cina per "L'ultimo imperatore" gli era apparsa «quasi come una liberazione, un modo per cambiare prospettiva, farmi entrare in testa altre storie».

bertolucci_l'ultimo imperatore

Direte: Craxi cosa c'entra? State a sentire. «L'Italia da cui volevo fuggire, in quel 1985, era proprio l'Italia di Craxi». Agli occhi del comunista Bertolucci il capo socialista incarnava il peggio di una certa politica. E tuttavia se "L'ultimo imperatore" si fece fu anche grazie all'odiato "cinghialone".

«Mentre eravamo già buon punto col progetto venimmo a sapere che l'americana Cbs stava lavorando a una miniserie tv sullo stesso argomento. I cinesi prendevano tempo, non si decidevano. Così quando mi dissero che il premier cinese Zhao Ziyang, l'uomo che qualche anno dopo da segretario del Pc avrebbe cercato di evitare il massacro degli studenti a Tien-An-Men, veniva in Italia per un visita ufficiale, beh, decisi di chiedere aiuto a Craxi. Perché convincesse Pechino a sostenere il nostro film. Lo fece. Sapete, tutti abbiamo i nostri segreti».

Il successo straordinario di "L'ultimo imperatore", nato da una scommessa anche estetica, per la serie «volevo ricordare a Hollywood come si fanno i grandi film epici di una volta», rilanciò la carriera internazionale di Bertolucci. La pioggia di Oscar fece il resto. Ma il regista ne parla oggi con distacco quasi zen, scherzandoci sopra.

Sarà perché nel frattempo non può più camminare, a causa di un'ernia del disco mal trattata dal chirurgo. «È molto tempo che non giro un film. L'ultimo, "The Dreamers", risale al 2003, mi sono divertito di più a fare tante operazioni assurde alle vertebre della schiena, ma forse riuscirò a inventarmi ancora qualcosa» scandisce alla sua maniera, soave e sarcastica assieme.

1 sergio leone

Il festival pesarese, pilotato da Giovanni Spagnoletti, gli ha dedicato una retrospettiva completa, culminata appunto nell'affollato incontro pubblico di sabato. Giornata piena: cominciata con l'intitolazione di uno slargo a Bruno Cesari, l'amico e scenografo che con Bertolucci visse l'avventura cinese; e terminata con la proiezione in piazza del restaurato "Conformista", il film tratto da Moravia che rappresentò un primo spartiacque nella carriera del regista.

«Prima del 1970 il mio era stato un cinema criptico, forse difficile. Con "Il conformista" vinsi la paura di incontrare il pubblico. Ho capito che potevo condividere con gli spettatori il piacere che prova chi fa cinema e chi lo vede. Ho smesso di pensare che se un film piace alla gente deve essere per forza inquinato da fattori, diciamo, di prostituzione dell'anima».

Il 2011 è un anno buono per Bertolucci. Lo stato d'animo è migliorato, nonostante i guai di salute; poco più di un mese fa il festival di Cannes gli ha conferito l'ambita Palma d'oro d'honneur; e ai primi di ottobre il regista darà il rimo ciak a un nuovo film, quel "Io e te" tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, producono Wildside e Medusa.

Niccolò Ammaniti

Una storia raccolta, intima, che si svolge quasi interamente in una cantina, protagonisti un adolescente e la sorellastra. «Spero che la notizia venga presa con benevolenza e non come una minaccia» sussurra il regista, sapendo benissimo dell'attesa che circonda il suo ritorno dietro la cinepresa.

Attori pressoché sconosciuti, un copione scritto insieme a Umberto Contarello e allo stesso Ammaniti, un set praticamente unico ricostruito a Cinecittà, soprattutto l'idea di usare in chiave d'autore, inedita e anti-hollywoodiana, le riprese in 3D. «Perché mi piace rischiare e perché penso che la terza dimensione, per una storia che si svolge tutta in una stanza, possa aggiungere qualcosa di molto magico. Chissà, potrebbe diventare un semi-horror, è come se avessi a disposizione una lente in più per far sentire il pubblico dentro quella cantina con i due personaggi, non davanti a loro».

Di più Bertolucci non svela, sta ancora facendo i provini. Ma si vede che il film gli ha ridato energia, pure il sorriso. Sarà anche per questo che, sottraendosi al rito anti-berlusconiano, stavolta il regista non la butta in politica. A Cannes, intervistato dal Tg1, s'era limitato a dire: «Dedico questa Palma a quegli italiani che ancora hanno la forza di combattere, protestare, anche di indignarsi».

Quentin Tarantino e Luca Guadagnino La Presse

Evitando, lui che confessa di rimpiangere parole «impronunciabili come ideologia e comunismo», di evocare ancora una volta «un'Italia anestetizzata da Berlusconi, dalle grandi centrali televisive che stanno creando generazioni di giovani infelici e assenti».

Lo sdegno e il sentimento rimangono, ma si direbbe che Bertolucci abbia ritrovato il piacere di parlare di cinema. Specie di quello italiano. Ammira Matteo Garrone, Emanuele Crialese, Luca Guadagnino e Paolo Sorrentino. Tanto da riempirli di complimenti: «In passato il neorealismo poneva al centro della sua ricerca estetica il reale e il sociale. La novità, che viene invece da questi registi, è l'ambizione di lavorare sulla struttura, sul linguaggio filmico, come se si ponessero la domanda di un tempo del teorico Bazin: che cosa è il cinema?».

Neanche il parmigiano e poliglotta Bertolucci, l'ex cinefilo che si fece amare da Sergio Leone confessandogli «mi piace come filmi il culo dei cavalli nei tuoi western», lo sa. Per questo, probabilmente, continua a fare film.

 


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