Quirino Conti per Dagospia


All'inizio, quando Milano cominciava a sfornare intelligenze stilistiche quali non si erano mai viste da noi, e in così gran numero - quasi la città fosse stata fecondata insieme da Minerva e da Mercurio -, e da ogni parte si guardava a quella strana metropoli come a un Centauro, un Tritone o un Fauno, insomma come a una di quelle mirabili creature per metà istinto per l'altra razionalità pura, a quel tempo (più o meno attorno alla seconda metà degli anni Settanta), per mostrarsi e farsi vedere la Moda e i suoi astutissimi artefici riuscirono a escogitare attorno alla musica popolare - quella cosiddetta "leggera" o "pop" -, in breve attorno alle canzoni, un qualche loro utile strumento di amplificazione e di risonanza promozionale.

Popolarissimo, appunto, ed efficace. E poiché fin da allora - con diabolica preveggenza - la Moda aveva preso ad ambire nell'ombra al popolare e al semi-plebeo, anche se nel ricordo, a posteriori, tutto ciò potrebbe apparire persino un po' grossolano, a quel tempo non lo era affatto. Tanto che i maggiori quotidiani spedivano a San Remo, sì, proprio a San Remo, gli stessi inviati che già, a poco a poco, stavano costruendo attorno a quei nuovi, stupefacenti eroi - sconosciuti e dunque anche per questo, al loro apparire, carichi di leggenda e di appeal - un abbozzo di linguaggio critico organico.

Cosicché, assieme a tutto il resto, si poteva anche leggere, con foto acclusa e non poca curiosità, di quello o di quell'altro con indosso, in una particolare serata, quel certo stilista o quell'altro. Ed era un preciso segno di distinzione e di potere partecipare a un tale show - come a qualsiasi altro del genere - con qualcosa di proprio "addossato" al divo del momento.
Ma loro, gli autori, nessuno ancora li vedeva: se non per qualche foto benevola e ben organizzata. Essendo il backstage e le loro dimore luoghi interdetti e impenetrabili. Persino per qualche residua diffidenza.
Come infinite altre volte, toccò ad Armani aprire la strada, infrangendo quell'ingenuo, timido e zigzagante promuoversi canterino; e come al solito, grandiosamente e senza badare a spese, con una diretta televisiva (la prima in assoluto), in un pomeriggio di domenica, e con un illustre presentatore lusingato padrone di casa.

Dentro quel deflagrante, nuovo mezzo comunicativo - altro che i mensili patinati! - con tutta intera la baldanzosa gloria di allora in una collezione che non portava neppure il suo nome.

Fu un successo senza precedenti. Un tumulto come mai prima: con ascolti vertiginosi, dicerie come al solito di ogni genere, ma, quel che più conta, la consapevolezza che, d'ora in poi, Loro sarebbero stati gli eroi; e che con quel genere di spettacolo totalmente inedito, con quei personaggi all'altezza del loro mito, no, proprio non si poteva scherzare.
E così lo schermo televisivo divenne un approdo prezioso e rilevantissimo - dunque, particolarmente concupito - per il nascente successo dello Stile. E le croniste di quei pochi secondi concessi dai telegiornali - in fondo in fondo, dopo lo sport e qualsiasi altra notizia fosse anche l'avventuroso ritrovamento di un gattino, scomparso da anni -, creature improvvisamente notevolissime e da adulare: in ogni modo.

Poi venne il Cinema. Naturalmente, con una progressione sostitutiva non del tutto lineare. E gli stilisti scoprirono che le star del grande schermo - certo molto più esigenti e meno raggiungibili dei cantanti - erano tuttavia, come ulteriore novità, molto più adatte e redditizie per i loro scopi; e soprattutto, immensamente più fotogeniche dentro le loro invenzioni.

Dunque, Cinema fino alla nausea. In una gara senza regole per strapparsi di mano star di ogni genere e calibro nelle loro più sfolgoranti occasioni di vanagloria. Chi può infatti dimenticare, ancora da Armani (lui, il vero apripista), il re Mida degli sculettamenti di allora, il tumultuoso e ceruleo Travolta del Sabato sera, in prima fila, a una sua presentazione uomo? E attorno a lui, il mondo: a lui che, ai piedi di quella impareggiabile pedana, nel suo sguardo rapito rifletteva con il trionfo di Armani anche quello di Milano e di tutto l'Italian Style.
Quindi, un viavai di superstar - talora anche appassite - e persino d'incarichi per i costumi - o meglio, per gli abiti - di film sofisticati e che giravano il mondo. Scoprendo, neppure troppo lentamente, che a questo punto non era più il Cinema a essere utile alla Moda, ma decisamente il contrario. Va ricordato infatti che, in quelli che, grosso modo, passano come gli anni Ottanta - ma evidentemente con sfumature già nei settanta e conseguenze ancora nei primi novanta -, lo Stile italiano era quanto di più desiderabile al mondo. E incredibilmente, con esso, anche la malinconica Milano e dunque l'Italia. Persino Sophia Loren, in verità così poco bête-de-mode, divenne una carta importante da contendersi; persino la povera Liz Taylor, già aggravata dalla vita.


Dunque: prima i cantanti e le canzoni - Versace-Vanoni (e a seguire, Elton John, Prince, Sting e molti altri) fu un binomio da far torcere d'invidia gli altri studi. Poi, evolvendo - anche in denaro -, gli attori e il Cinema. Basic Instinct, ad esempio, offrì a Valentino un'occasione davvero fatale per tracimare sui media di mezzo mondo: da Parigi, con Sharon Stone al suo apice in un'uscita finale confezionata appositamente per lei. Con altrettanti livori, certo, ma anche con un indiscutibile "ritorno": come dicono gli addetti al momento di presentare il conto.
Intanto, però, un tarlo crudele aveva iniziato a rovinare la festa; con il suo rosicchiante lavorio nelle menti più accorte e con un malevolo, terribile ma inesorabile: "Fino a quando?".
Sì, già allora; per qualcuno che aveva conosciuto da vicino altre vicende ed epopee similari. Tanto che, quel rosicchiare, iniziarono a percepirlo e a distinguerlo anche al di fuori di quel circuito così protettivo.
E non tanto, e non solo, a causa di testimonial (che nome atterrente) quali che fossero, già in via d'inesorabile opacizzazione e di progressiva inefficacia: perché intercambiabili, abusati e talora persino sconosciuti ai più; oltre che screditati dalle loro pubbliche, a questo punto esosissime, richieste.

Quanto piuttosto, nonostante guadagni e investimenti ancora rilevanti, per un'ineludibile usura dell'argomento stesso; oltre che per qualche inevitabile incertezza, ormai, su come e dove continuare ad attingere energie fresche così da poter nuovamente generare meraviglia, stupore, attenzione e dunque mercato.

Oltre il puro e semplice voyeurismo, come si temeva stesse già accadendo; già molto prima del mercato degli accessori e del dettaglio stilistico (occhiali, borse, scarpe, cinture ecc.). Anche a causa di una piccola assuefazione all'argomento e alla notizia. Così che, tra un sospiro e uno sguardo circospetto, tra espertissimi si iniziò persino a sussurrare che per la Couture il processo era stato esattamente quello, identico: seppure a Parigi, con altri nomi, altre forme e un crollo inesorabile.
E che forse non c'era neppure più una via d'uscita. Dal momento che, a quella che era stata un'autentica voracità di firme, inevitabilmente sarebbero seguite sazietà e sonnolenza; se non disgusto. Mentre i nostri eroi - anch'essi sazi, ma bramosi di qualunque riconoscimento -, dopo il successo e la celebrità, ora pretendevano addirittura la fama. E il museo.
Purtroppo, è doloroso ricordarlo, con la tremenda, buia uscita di scena di Gianni Versace tutto, da un giorno all'altro, sembrò mutare. E un vento avverso, contrito e moralizzante, parve convincere i più dell'opportunità di una minimale ritirata e di una atterrita retromarcia.
Tanto che - un po' come pare avesse detto dell'Ancien Régime Talleyrand, che cioè chi non l'aveva goduto non poteva neppure immaginare cosa fosse la gioia di vivere - dunque, ciò che era stato prima, in quell'euforico irragionevole, orgiastico e sconsiderato caos autopromozionale, sembrò all'improvviso solo un pericoloso, vergognoso e incolto inciampo, per tutti.


Troppo raffazzonato, mondano e per nulla selettivo, trash e del tutto contrario ai sofisticati enigmi (i Giapponesi, Calvin Klein, Jil Sander e una Prada agli esordi) che la Moda iniziava a inventare.
E in questo eterno, dialettico altalenare tra ultra-pop e super-chic, quale migliore via d'uscita, allora, se non il vero difficile, l'autentico ermetico, il quasi espiativo, il faticoso, il distante: in sintesi, quello che sembra essere unicamente della Cultura, dell'Ufficialità e del riconosciuto dalle élite intellettuali; dunque le Accademie e persino i Musei.

Mentre - sempre più arditamente e anche (mea culpa) a opera di chi scrive - a termini quali Stile e Moda, Stilisti e Couturier si andavano intrecciando termini sacri e fino ad allora inattingibili quali arte, artista, intellettualità, intelletto, genio e genialità. O, al peggio, creatività, creativo e creazione. Iniziando un po' tutti a dubitare che qualcuno tra questi Centauri non fosse, o non fosse stato, molto più di un sensibilissimo énervé.

E giacché si erano spese cifre esorbitanti anche per cose più o meno d'arte, dopo le fastose dimore e gli arredi d'autore e, dopo "i Picassi", persino per artisti determinatamente moderni, anzi contemporanei, preziosissimi, scostanti e conosciuti unicamente da pochi iniziati - poiché, come sempre, Dio li fa e poi li accoppia -, a qualcuno venne in mente (ancora, ma in piccolissima parte, mea culpa) che, forse, un futuro era persino ancora possibile dentro quel misterioso Limbo: sussiegoso, settario, minimale e criptico.
Con un nuovo, strepitoso binomio - avendo forse rimosso qualche rozzezza in casa propria -, nuovo e arditissimo; ora che gli stilisti si erano fatti potenti e popolari come pochi altri e gli artisti, stanchi del loro Gotha talora tanto distante, troppo assatanati invece di denaro e successo per schermirsi ancora di fronte a quella mésalliance e a quella partnership inusitata; ora che l'Arte, o ciò che si chiama ancora a quel modo - in verità, poco più di un paradosso o di un gioco d'abilità intellettuale -, era divenuta irredimibilmente ludica, giocherellona, abbordabile, povera e astuta.

In sintesi, debole anche se complessissima. Dunque perfetta per gli snobismi dello Stile, colma di indisponibile spocchia come appariva. E quel connubio si fece. In tutto simile a quello tra l'indimenticabile Madame Verdurin e il vedovo principe di Guermantes.

Fu a Firenze (1996), in occasione della prima Biennale della Moda. Che, per la prima volta, ufficialmente raccordò il lavoro dello Stile a quello degli artisti. Con qualche occhiata supponente e un'aria di reciproca tolleranza. Ma intanto, da una parte ci si stava convincendo di non essere più solo artigianato d'arte; dall'altra si stava spericolatamente cedendo al mercato e alla showroom.
Davvero ormai commercialmente prossimi, a un passo l'uno dall'altra. E Milano, per non morire, cercò di trasformarsi in un cenacolo di connoîsseur e di complicati ermeneuti. Per disperazione forse, ma anche per orgoglio. Purtroppo, non più per convinzione, come era stato agli esordi e come sarebbe stato più che naturale.

E sembrò davvero fatta: intanto che il Mercato cercava di rianimarsi. A forza di archistar e, dopo San Remo, Venezia, Cannes e Hollywood, con le biennali e le triennali e tutto il loro mercato, critici ed esperti compresi. Ma per un eccesso di consulenti - e di ingenuità - forse con troppo entusiasmo e troppa fretta. Appunto, un po' à la Madame Verdurin.

Nessuno li aveva infatti informati che per collezionare e accumulare tante anomalie estetiche bastavano certo i loro denari; purtroppo, oltre i conformismi, non per distinguere e distinguersi. E che, a forza di ricercare gruppi di appartenenza e di legittimazione per un rapido passaggio verso la notizia - sempre più selettivi, questi, e schizzinosi -, si sarebbe prima o poi tutti precipitati in quanto di più anticomunicativo e impopolare c'è al mondo. Nel ridicolo.

Poiché, si sa, tutto può ingurgitare la Moda e tutto trasformare in Stile, finanche la barbarie - è già accaduto -, fatta eccezione per il ridicolo e per la malafede. Per questo, nella storia del gusto e delle forme, se l'eccesso ha avuto sempre un posto di rilievo, mai il Kitsch. Del quale sembrano oggi folli gli artisti, ma, Dio ne scampi, mai lo Stile.