1 - UNA FINALE DA SOGNO CHE RISCOPRE ANCHE CULTURA E IMPRESA
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera"
Festa grande a Wembley. Non è stata soltanto una finale di Champions vinta alla grande dal Barcellona contro il Manchester United. È stata qualcosa di più. La vera novità nel mondo sportivo è che si è giocata una finale tra due brand, tra due marchi storici e dominanti nel mondo del calcio, i Blaugrana e i Red Devils.
Se un tempo esisteva la squadra del cuore, normalmente legata alla cultura del campanile, oggi esistono queste multinazionali del calcio capaci di esprimere non soltanto un senso di adesione ma un vero e proprio processo identitario transnazionale, né più né meno come avviene per i marchi più famosi, appartengano essi alla moda, alle assicurazioni, alla telefonia.
Secondo il rapporto Heart of Sports Commerce, questa finale di Champions League è valsa 369 milioni di euro ed è stata la più redditizia di tutta la storia del calcio europeo. La squadra vincitrice ha avuto un ritorno economico record di circa 126 milioni di euro, tra premio ufficiale in denaro, crescita del valore del team, diritti televisivi e aumento della brand equity.
La squadra perdente, invece, si è consolata con circa 73 milioni di euro. Secondo il professor Simon Chadwick, direttore del Centre for the International Business of Sport dell'Università di Coventry, la finale tra United e Barça ha suscitato un interesse senza precedenti da parte dei Paesi del Sud America.
Le due squadre finaliste schierano infatti numerosi giocatori latinoamericani. Normalmente i soldi appassionano solo chi li fa. Come si fa a muovere così tanti interessi e a non diminuire l'attenzione sul gioco? La sfida di Londra ha avuto il merito di restituire al calcio, almeno per una notte, la sua virtù più invidiabile: essere una macchina da sogni. In un mondo poco propenso all'immaginazione come il nostro, per molte persone il calcio resta l'ultima riserva di magia e di fantastico, di malie e di incantesimi, ingredienti che danno un sapore unico alle fiabe.
Come nelle fiabe ci sono gli eroi (Messi, Iniesta, Xavi, Rooney, Hernandez, Giggs e tanti altri) che aiutano a sollevarci dalla nostra dimensione più quotidiana. Come nelle fiabe ci sono i buoni e i cattivi, con una nitidezza degna delle più solenni figure retoriche. Come nelle fiabe, non ci sono confini: se giocava una squadra italiana (l'Inter dello scorso anno, per esempio) era meglio, ma le emozioni intense non hanno passaporto.
Però un brand esiste e si afferma solo a certe condizioni: bisogna avere grandi star in squadra (esattamente come il cast di un buon film), bisogna esprimere un tipo di gioco che assurga a stile riconoscibile (la ragnatela del Barça contro l'organizzazione militare dello United, le idee innovative del giovane Pep Guardiola contro quelle più tradizionali di sir Alex Ferguson, l'intramontabile coach con rosa all'occhiello), bisogna che tutti i componenti della squadra, dal presidente all'allenatore, dai giocatori ai magazzinieri facciano parte di uno stesso progetto comunicativo (che l'identità del calciatore fedifrago Ryan Giggs sia stata svelata grazie ai 75 mila cinguettii apparsi su Twitter ha però incrinato non poco questo concetto), bisogna che il mito sia alimentato in continuazione o con l'innesto di giovani provenienti dal vivaio (la famosa «cantera» catalana) o con un gruppo storico consolidato dagli anni.
La partita fra i Red Devils e i Blaugrana è stata la testimonianza che il calcio non è soltanto tecnica e tattica, perché in esso vi sono anche i sentimenti che reggono la vita, come il coraggio, la rivalsa, la nobiltà, il livore. Cultura sportiva e imprenditoriale, bel gioco e sogni, solo così si diventa brand, cioè un modello di sport e di vita. Quanto ci metteranno Milan, Inter e Juve a capirlo?
2 - UN TRIENNIO DI BEL GIOCO E VITTORIE A CUI S´È AGGIUNTA UN´ALTRA CHAMPIONS...
Andrea Sorrentino per "la Repubblica"
Hanno abolito il colpo di testa, non sanno cosa sia un cross. Eppure stanno cambiando la storia del calcio. Anzi la cambieranno proprio per questo. Nei tempi bui del pallone a uso e consumo degli atleti alti, forti e dai muscoli esplosivi, lo squarcio di luce è proprio il Barça dei normodotati al potere, dimostrazione vivente che si può dare spettacolo e vincere ogni cosa con giocatori che non arrivano al metro e settanta, che toccano la palla solo con i piedi, tenendola ancorata all´erba, e usano la testa solo per pensare più velocemente degli altri. Rivoluzione a suo modo epocale.
Così di fronte a un simile fenomeno il mondo si stropiccia gli occhi e non può che chiedersi: è la squadra più forte di sempre? Sarà il simbolo di un´era nuova, come lo furono il Real di Di Stefano, l´Ajax di Cruyff, il Milan di Sacchi? O forse lo è già? A sentire Alex Ferguson, pochi minuti dopo la finale di Wembley, sembra proprio di sì: «Nessuno ci ha mai dato una legnata simile.
Dureranno a lungo, almeno finché giocheranno Xavi e Messi. Il Barcellona è la squadra più forte che io abbia mai visto», e detto da un signore che sta per compiere 70 anni fa un certo effetto. Gary Lineker è estasiato: «Il loro è il miglior gioco di sempre. Il Barcellona è un regalo che gli dei del calcio ci offrono. E come hanno fatto i grandissimi team del passato, stanno cambiando lo spirito di questo sport, con la loro fantastica combinazione di tecnica, velocità e movimenti di squadra».
Il tutto, come spesso osservato, puntando su giocatori cresciuti in casa, nella celebre Masìa dove il club forgia i suoi talenti: sette titolari su undici della finale di Londra sono cresciuti in casa, più l´allenatore Guardiola e tutto il suo staff tecnico. Quindi si può diventare i migliori del mondo anche a costo zero, se si vuole.
E si può giocare al calcio senza un lancio lungo, senza un cross, senza alzare mai il pallone più in alto di venti centimetri, e questa forse è la rivoluzione principale, l´insegnamento che il Barça dà al mondo: smettete di pompare i muscoli dei ragazzini dei vivai, smettere di sceglierli solo in base all´altezza, scartando i più piccini, perché non ha senso, perché si può vincere una finale di Champions anche con sette giocatori su undici che non arrivano al metro e settantacinque.
Iniesta rivela: «Siamo più bravi perché da ragazzini abbiamo imparato ad avere più intuito, più senso dell´anticipo, più furbizia, e a proteggere il pallone a dovere contro avversari grandi e grossi». Quest´anno, su 147 gol segnati in 60 partite ufficiali, il Barça ne ha realizzati appena 8 su colpo di testa. Il resto da combinazioni veloci palla a terra, anche se con Messi nel motore è tutto più facile, certo.
Lo ammette persino Guardiola, che in tre anni ha vinto 10 trofei su 13 possibili, e due dei tre mancanti glieli ha sfilati José Mourinho: «Replicare i miei successi altrove? Certo, basta che il mio futuro presidente mi compri tutti i giocatori che ho qui al Barça, a cominciare da Messi...». Solo un presidente potrebbe accontentarlo, ed è proprio quello che sta corteggiando Guardiola da mesi: Roman Abramovich lo vuole disperatamente al Chelsea, ma questa è un´altra storia e la scriveremo nei prossimi anni. O nei prossimi mesi.
3 - «PEP UN GRANDE, L'ITALIA HA SAPUTO SOLO FARGLI DISPETTI»...
Al. P. per il "Corriere della Sera"
Lui lo conosce bene. Gino Corioni è stato il suo presidente al Brescia dal 2001 al 2003 e già allora aveva capito tutto.
«Guardiola era ed è un personaggio straordinario. Come giocatore aveva capacità tecniche fuori dal comune. Come uomo è intelligente e insieme modesto, una combinazione sempre difficile da trovare in questo ambiente».
Ferguson alla vigilia della finale di Champions ha ricordato che avrebbe voluto portarlo a Manchester ma Pep preferì Brescia.
«È così. Quando ho saputo che lasciava il Barça, nel 2001, sono andato in Spagna per parlargli. Mi disse che aveva avuto contatti con una squadra inglese» .
Poi che cosa accadde?
«Che un'esperienza nuova in Italia lo affascinava di più».
E, incredibile ma vero, preferì il Brescia allo United.
«Con la carriera che aveva già fatto, a 30 anni, poteva permetterselo. Credo che anche questa esperienza sia entrata a far parte del suo futuro bagaglio di allenatore» .
Furono giorni anche difficili, con la squalifica per doping.
«Una storia assurda. Ma vi sembra possibile che uno che era stato capitano del Barcellona potesse doparsi per giocare un Brescia-Piacenza? Infatti è stato assolto non solo in sede sportiva ma anche civile» .
Come reagì Guardiola in quei giorni?
«Con incredulità, ma anche con molta professionalità, come sempre. Noi italiani gli abbiamo fatto i dispetti peggiori del mondo, ma lui è sempre restato il solito signore».
Si aspettava che, come tecnico, potesse arrivare così lontano?
«Le sue qualità erano chiare, ma così... Sinceramente, con tutto il calcio che ho vissuto, non ho mai visto una squadra giocare come gioca il suo Barcellona» .
Vi sentite ancora spesso?
«Spessissimo. Un mese fa era a mangiare da me».
Il successo lo ha cambiato?
«Per niente. È sempre lo stesso di prima, sereno e semplice. Del resto, i grandi non cambiano: cambiano solo i presuntuosi e i deboli» .
Secondo lei Guardiola in Italia funzionerebbe?
«Lui è bravo, ma il suo gioco non mi pare facilmente riproducibile, forse nemmeno in Spagna. Un trapianto di quel progetto in Italia mi pare complicato».
Solo per ragioni tecniche?
«Non solo. Il nostro calcio brucia tutto in pochi mesi. Si immagina che cosa accadrebbe da noi se Guardiola solo pareggiasse due partite di fila?» .