Federico Pontiggia per "Il Fatto Quotidiano"
Domenico ProcacciNon è un Paese per premi, ma di commedie strapaesane. Ultimo italiano ad entrare nella cinquina del film straniero agli Oscar La bestia nel cuore nel 2006, ultimo riconoscimento in un festival internazionale che conta la doppietta di Gomorra e Il Divo a Cannes 2008 (più Elio Germano l'anno scorso), ma non c'è da "drammatizzare", almeno a dar retta a uno che se ne intende: Domenico Procacci, produttore di Fandango ed enfant terrible del cinema tricolore.
Procacci, davvero possiamo stare tranquilli?
Non dobbiamo allarmarci troppo, se non si vincono premi o se non finiamo nella cinquina degli Academy Awards. Ma sono discorsi diversi, gli Oscar sono una lotteria: ho visto il meccanismo da vicino ed è molto farraginoso. Ogni anno si tenta di migliorarlo, col risultato di complicarlo ancor più. Entrare o meno in cinquina è come vincere l'Enalotto, e pure ciò che segue: alla statuetta al miglior film straniero diamo importanza solo noi di lingua non inglese, Hollywood la snobba.
E i festival, dove digiuniamo da un po'?
La vittoria dipende da così tanti fattori: la composizione della giuria, l'ordine di visione del film, l'innamoramento di un giurato per questo o quell'altro titolo, i vari giochi di equilibrio... Sono stato in giuria a Tokyo, che non sarà Cannes ma ha una sua importanza: film arrivati per vincere se ne sono andati via a mani vuote.
Dunque, non "drammatizziamo"?
Se un film vale, resta lo stesso, indipendentemente dai premi. Detto questo, il nostro cinema attraversa un buon momento: finalmente, sullo scenario internazionale abbiamo un numero consistente di autori conosciuti e seguiti e ci stiamo allontanando dalla meravigliosa ma pesantissima eredità dei grandi maestri.
Ovvio, non tutti gli anni possono essere felici come il 2008, ma quei premi sono parte di un percorso che non si è interrotto e porta nuovi risultati: all'estero Garrone, Sorrentino, Moretti, Amelio, Bellocchio e Crialese sono qualcuno, ma anche Ozpetek e Muccino li conoscono, vuoi per l'affermazione ai festival vuoi perché i loro film sono stati distribuiti. È un grande risultato e, ribadisco, prescinde dalla vittoria o dalle nomination.
PAOLO SORRENTINO E MOGLIESe avessimo fatto altre scelte, magari Io sono l'amore di Guadagnino al posto de La prima cosa bella di Virzì, nella corsa agli Oscar, sarebbe cambiato qualcosa?
È una polemica su cui non voglio entrare. D'altronde, il digiuno di palmares non vale solo per noi italiani: prima de La classe di Cantet (2008) da quanti anni i francesi non vincevano a Cannes, eppure il loro è un cinema in buona salute, o no?
Dunque, viviamo di commedie.
Non solo da noi, hanno successo in patria, ma poco esportabile. Questi grandi numeri portano salute a tutti i segmenti della filiera e creano un rapporto di fiducia con il pubblico: sono storie vicine alla nostra realtà, non più americane.
Frizzi e lazzi sono rose e fiori?
Il dato va guardato per quel che è, ma ho sentito discorsi fuorvianti, che appoggiano a questi risultati la non necessità di fondi per il cinema italiano, che viceversa ha bisogno di soldi e investimenti. Nella discussione alla Camera sulla sfiducia, il ministro Bondi ha portato questo argomento a sostegno del proprio buon operato: senza entrare nel merito della sua azione politica, dice qualcosa che non è vero, perché il cinema da realizzare in futuro non è solo commedia. Oggi c'è un interesse assoluto, e i produttori finanziano di conseguenza, ma se si esagera in quantità e scarsa qualità si romperà il patto con il pubblico, come è già accaduto con i film generazionali, che avevano sostituito l'immaginario americano dei teenager.
Che cosa ha in cantiere Fandango?
Staremo lontani dalla commedia con la Scuola Diaz di Daniele Vicari e il nuovo film di Pippo Mezzapesa, mentre ci ritorneremo con Sergio Rubini e Ferzan Ozpetek.
Un pareggio sofferto...
No, Habemus Papam di Moretti non è una commedia, e nemmeno il nuovo lavoro di Matteo Garrone.
Appunto, Garrone che sta facendo?
Sta ultimando la sceneggiatura e iniziando la preparazione: non è il progetto glamorous su Corona & Co., di cui si era a lungo parlato, ma non aggiungo altro.
Oltre a questi, quale film avrebbe voluto produrre?
This Must Be the Place di Sorrentino.
Ritorniamo alla commedia: non corriamo il rischio della ghettizzazione?
Pur raccontando una dimensione molto locale il successo può essere internazionale: a me è successo con Respiro. Ma una buona storia è tale anche se non varca i confini, il problema è un altro: la commedia non dev'essere l'unico modo possibile di raccontare una storia, altrimenti davvero il nostro cinema rischia di rimanere tra quattro mura, salvo gli autori già riconosciuti.
Che ne pensa del rincaro di un euro del biglietto?
Non credo si potesse fare diversamente: sarebbe stato molto grave, quasi criminale, non dare proseguo al tax credit, norma peraltro varata da questo governo. Ora l'impegno, condiviso un po' da tutti, è trovare una soluzione alternativa prima dell'entrata in vigore il 1° luglio perché i costi ricadano su tutta la filiera, e non solo sul biglietto.
A corto di idee, Il Giornale ha accusato Andrea Occhipinti di produrre Silvio Forever e insieme collaborare con Medusa: lei che rapporto ha con la controllata Mediaset?
Non ho mai avuto pressioni o forme di censura politica, e ci ho fatto molti film, compresi i primi due di Sorrentino. Medusa è una società orientata al mercato, non un veicolo politico a favore di questo governo o del presidente del Consiglio. D'altronde, il problema se lo saranno posto anche autori ideologicamente lontani da Berlusconi, da Bertolucci a Tornatore, da Virzì a Ozpetek. Medusa non è uno strumento di propaganda, a differenza delle tv o dei giornali.
Quindi sullo strepitoso successo di Zalone non c'è l'ombra del diversivo politico?
Alle spalle c'è stata l'intuizione di una forte potenzialità commerciale, non un pensiero politico o para-politico: sono un tifoso del conspiracy-thriller e arrivo a mettere in dubbio l'aereo sul Pentagono o il crollo delle Torri, ma Zalone no.