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GENCHI FOREVER! - IL BANANA A RETI UNIFICATE LO DEFINI’ IL “PIU’ GRANDE SCANDALO DELLA STORIA DELLA REPUBBLICA”- IL CASO-GENCHI INVECE ERA UNA BUFALA COSTRUITA AD ARTE - L’EX CONSULENTE è STATO PROSCIOLTO DALL’ACCUSA DI AVER SPIATO 350 MILA PERSONE E DI AVERNE SCHEDATE 6 MILIONI (ROBA CHE NEMMENO LA CIA) - IN UN’INTERVISTONA-BOMBA GENCHI RIPASSA TUTTI GLI ATTENTATI, DA FALCONE A BORSELLINO, E SU CIANCIMINO DICE...

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Marco Travaglio per "l'Espresso"

MARCO TRAVAGLIO

Il 24 gennaio 2009 Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, annuncia a reti unificate: "Sta per scoppiare uno scandalo enorme, il più grande della storia della Repubblica, cioé un signore che ha spiato 350 mila persone". Il signore in questione é Gioacchino Genchi, vicequestore di polizia, da venti anni consulente informatico di procure, tribunali e corti d'Assise per quasi tutte le più delicate indagini e processi di mafia.

Il suo lavoro consiste nell'incrociare intercettazioni e tabulati telefonici disposti e acquisiti dalla magistratura per stabilire chi, quando, dove e possibilmente perché ha rapporti con criminali. Dunque Genchi non ha mai intercettato una mosca in vita sua.
Ma un'opposizione inesistente e disinformata (salvo rare eccezioni) e una stampa sciatta e gregaria si bevono d'un fiato la bufala, anzi l'assecondano sparacchiando cifre a casaccio e accusando il presunto "spione" di ogni nefandezza senza uno straccio di prova.

I politici, noti garantisti, emettono unanime condanna. Schifani: "Tutelare istituzioni e cittadini". Alfano: "Difendere gli apparati di sicurezza". Gasparri: "Roba da corte marziale". Rutelli (allora nel Pd e presidente del copasir): "Caso molto rilevante per la libertà e la democrazia". Cicchitto: "Inquietante grande fratello". Quagliariello: "Scenario inimmaginabile e preoccupante per la sicurezza dello stato". Bocchino (ancora pdl): "Il più grande caso di spionaggio della storia repubblicana". Mastella: "Licio" Genchi è un pericolo per la democrazia".

GIOACCHINO GENGHI MARCO TRAVAGLIO

Tenaglia (pd): "Vicenda grave". Violante: "Intollerabile". Zanda: "Tavaroli e Genchi, tante analogie" (l'uno spiava illegalmente migliaia di persone per Telecom, azienda privata, l'altro opera legalmente al servizio dello stato, su mandato dei magistrati). "la Stampa" e il "Corriere" titolano: un italiano su 10 nell'archivio Genchi (6 milioni di persone schedate, roba che nemmeno la Cia). "Il Giornale": "Grande orecchio, miniera d'oro. "Libero": "L'intercettatore folle".

La profezia del premier, sostenuta da cotanto battage, si rivela azzeccata: due mesi dopo, nel marzo 2009, la procura di Roma indaga Genchi per accessi abusivi alla Siatel (l'anagrafe tributaria) e sguinzaglia il ros a perquisirgli e sequestrargli l'archivio informatico. L'accusa riguarda i più importanti accertamenti svolti da Genchi negli ultimi anni su stragi, narcotraffico e mafia. Compresi quelli sui telefoni del maresciallo del ros Giorgio Riolo (arrestato e poi condannato come "talpa" alla procura antimafia di Palermo) e sulla scheda gsm coperta, intestata a una signora, che il mafioso poi pentito Campanella passò all'allora governatore di Sicilia Cuffaro per i contatti riservati con Riolo e un'altra talpa.

Gioacchino Genchi

In seguito la stessa procura di Roma farà pure rinviare a giudizio Genchi per abuso d'ufficio per la presunta acquisizione di tabulati di parlamentari non autorizzata dalle camere nell'indagine "why not" di Luigi de Magistris (reato impossibile: l'abuso presuppone un tornaconto patrimoniale e poi, per sapere che un'utenza è di un parlamentare, bisogna prima acquisire il tabulato e verificare chi usa il telefono). Indagato e sputtanato, Genchi si vede revocare gli incarichi da vari uffici giudiziari e addirittura destituire dalla polizia: sanzione, quella decisa da Antonio Manganelli, mai adottata per uno solo delle decine di funzionari condannati per le torture al G8 di Genova.

Ora la notizia è che nel processo seguito alla profezia del premier, Genchi è stato prosciolto dal gup Marina Finiti, su richiesta della stessa procura: "il fatto non sussiste". Ce ne sarebbe abbastanza perché politici e giornalisti che lo infangarono con quelle assurde calunnie chiedessero scusa e facessero pubblica ammenda. Per molto meno, in casi analoghi, si scatenano interrogazioni parlamentari, ispezioni ministeriali, richiami al caso Tortora, editoriali accigliati dal titolo "E ora chi paga?". Per Genchi, silenzio di tomba. Ecco: una classe politica e giornalistica che fa cose del genere è, essa si, "il più grande scandalo della storia della Repubblica".

ANGELINO ALFANO

GENCHI A NOTTE CRIMINALE
L'intervista è stata realizzata da Fabrizio Colarieti per "Notte Criminale" (http://nottecriminale.wordpress.com/)

Dottor Genchi, cominciamo dalla fine. Il 15 febbraio scorso è stato destituito dalla Polizia dopo aver indossato quella divisa per 26 anni. Una lunga istruttoria condotta dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza non le ha perdonato alcune esternazioni dopo la bufera per le indagini condotte con il pm De Magistris, che l'hanno anche fatta finire sotto inchiesta per una presunta violazioni della privacy. Come mai ce l'hanno così tanto con lei?
Hanno cercato di tutto per impedirmi di continuare la mia attività. Si era creata col tempo, partendo da Giovanni Falcone, una figura professionale incontrollabile e incontrollata. Ho collaborato alle più importanti indagini che si sono svolte in Italia, dalle stragi allo scandalo Fastweb.

E' stata un'operazione che dal proclama di Berlusconi: "sta per scoppiare il più grande scandalo della Repubblica" di Olbia del gennaio del 2009, è iniziato il conto alla rovescia per delegittimarmi e in questo senso è stato chiesto, chiaramente, addirittura è stato minacciato il Capo della polizia - sono delle dichiarazioni di autorevoli politici, autorevoli a casa loro ovviamente, tipo Gasparri. La cosa interessante è che hanno cercato di tutto nella mia vita privata e nella mia vita professionale. Non sono riusciti a trovare nulla e quindi hanno dovuto destituirmi semplicemente per aver espresso delle opinioni in un consesso pubblico, esercitando un diritto costituzionale.

CICCHITTO

Lei è considerato uno dei massimi esperti in analisi delle reti e indagini collegate all'impiego delle intercettazioni. E' il consulente di decine di procure, intrecciando tabulati e localizzando cellulari ha risolto centinaia di casi, ci può spiegare in cosa consiste il suo lavoro?
Oggi non c'è più un'indagine in cui non ci siano tabulati, intercettazioni, cellulari, sim, traffico imei, e-mail, dati dei computer, quindi tracce informatiche che bisogna mettere insieme e leggere al pari di tante tracce biologiche, come dna e impronte. Vede, io metto insieme diverse professionalità: una cultura giuridica, formata anche come giovane avvocato prima di entrare in polizia; una cultura informatica messa insieme con la passione per le tecnologie, che ho avuto sin da bambino, e un po' il cipiglio dell'investigatore. Queste tre professionalità, se vuole queste tre mediocrità, quindi da uno a dieci mettiamo il valore di 5, hanno dato un valore assoluto che valeva 15, che riusciva a mediare in quel linguaggio giuridico tecnico processuale fattori assolutamente complessi.

Parliamo del fallito attentato alla villa del giudice Falcone, all'Addaura, era il 1989. Lei si dedicò a quelle indagini per capire quali fossero le «menti raffinatissime» (così le definì Falcone) che organizzarono l'attentato.

Quello è un attentato pieno di ombre e di misteri. Misteri che hanno un parallelo con quello accaduto in Via D'Amelio: fu fraudolentemente distrutto il congegno di quell'attentato, quel congegno che doveva svelare se quella borsa era un'intimidazione o doveva essere effettivamente utilizzata con quell'esplosivo. Perché quell'esplosivo è rimasto, però l'esplosivo senza il detonatore non porta a nulla.

Luciano Violante

E il detonatore doveva essere attivato con un congegno quindi un telecomando, e probabilmente se l'esplosivo non ha nome, un telecomando e un congegno per attivare un esplosivo hanno la possibilità e danno la possibilità di risalire a chi l'ha congegnato e non a caso fu fatto esplodere. Fu distrutto da un maresciallo dei Carabinieri che rese poi false dichiarazioni ai pubblici ministeri, che accusò un funzionario di polizia che è stato condannato per queste false dichiarazioni.

E questa è una cosa che forse alcuni ben precisi appartenenti all'Arma dei Carabinieri non mi hanno mai perdonato. Come non mi hanno perdonato di averli sgamati, ad esempio, nell'indagine sulle talpe alla DDA di Palermo. Le indagini che hanno portato alla condanna di Salvatore Cuffaro, ma non solo di Cuffaro ma anche di alcuni infedeli appartenenti all'Arma dei Carabinieri.

Quando fu ucciso Falcone, a Capaci nel 1992, la procura di Caltanissetta le affidò l'analisi dei computer e dei databank da cui il giudice non si separava mai. Fu proprio lei a scoprire che in epoca certamente successiva alla strage erano stati manomessi alcuni file editati da Falcone, altri modificati o cancellati.
Sì, è un dato di fatto. Quelli che per primi hanno toccato quegli appunti, quei reperti informatici di Falcone, hanno fatto carriera e sono ai vertici della Polizia di Stato. Io che ho scoperto le loro malefatte sono stato destituito dalla Polizia, questo mi sembra basti già a dimostrare quello che è accaduto.

55 giorni dopo toccò a Borsellino. In via D'Amelio, in quell'inferno, vide movimenti strani o persone sospette? Mi riferisco alla vicenda dell'agenda "rossa", scomparsa nel nulla e mai più ritrovata, su cui Borsellino annotava tutto.

Borsellino annotava tutto quello che stava facendo, stava sentendo Gaspare Mutolo che ha parlato di Contrada, che ha parlato di Signorino. Contrada è stato condannato, Signorino dopo che l'abbiamo interrogato a Caltanisetta si è suicidato. Questo già la dice lunga. Sono arrivato quando già l'agenda rossa era già scomparsa, è stata repertata una borsa dove c'era l'agenda, che era integra. L'agenda era dentro la borsa, la batteria di un cellulare Motorola che è questa che le sto mostrando è rimasta, un costume di nylon molto più infiammabile della pelle è rimasto, l'agenda è sparita.

SILVIO BERLUSCONI

Quell'agenda rappresenta la scatola nera della seconda repubblica, partendo da quell'agenda si può capire chi voleva fermare Borsellino a Roma, l'incontro al Ministero dell'Interno organizzato da Parisi. Io ho dimostrato con i tabulati che Contrada era a Roma quel giorno, e questa è una circostanza che non era mai emersa prima d'ora. E questo segue quel cambio di rotta al Viminale, che segue le elezioni dell'aprile del ‘92, quando c'è una svolta nella lotta alla mafia, con due alternanze: Rognoni, l'ingresso di Mancino al Ministero degli Interno e la messa da parte di Scotti, che aveva fatto tantissimo nella lotta alla mafia. Era l'artefice di quel famoso decreto di cattura nel ‘91, quando la Cassazione aveva messo fuori i boss mafiosi con una scusa e che furono riportati in carcere.

E aveva dato ausilio a Falcone affinché potesse attuare, con Martelli, quella famosa rotazione dei Giudici di Cassazione che salvò il Maxiprocesso e che decretò la morte di Falcone. Scotti doveva uscire dal Ministero dell'Interno, perché c'era qualcosa che era cambiato nel rapporto tra la politica e la mafia. E Mancino era andato a sostituirlo all'Interno, con una scusa e qualche settimana dopo la strage di Via D'Amelio si dovette dimettere pure da Ministro degli Esteri. Questi sono i segni evidenti di come la politica abbia agito in perfetto raccordo con quelle che sono state le trattative con gli elementi stragisti di Cosa Nostra.

Lo stesso Mancino, poi, che ho rincontrato al Csm nella vicenda "Why Not?" e nella vicenda di Salerno, in cui non mi faccio certo prendere dagli atteggiamenti trionfalistici di De Magistris, che ha fatto una marea di errori ma è una gran persona perbene. Una persona onesta che forse avrebbe bisogno solo di un bel bagno d'umiltà. Mentre ero in via D'Amelio fui chiamato dal Capo della Polizia, Parisi, che mi aveva affidato un incarico importante alcuni giorni prima. Dovevo occuparmi, in gran segreto, proprio quella notte, di eseguire i trasferimenti dei detenuti a Pianosa. Fu l'attuazione del 41 bis. Contrastato in quelle ore della sera, del 19 luglio, fino a quando Martelli firmò il decreto.

Il Capo della Polizia, che vedevo quasi una volta alla settimana a Roma, in incontri assolutamente riservati con il dirigente della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, mi manifestò la sua fiducia, che era la fiducia dello Stato, con una lettera. Di uno Stato che voleva combattere la mafia, ed era lo Stato dei governi Andreotti, occorre dirlo con estrema onestà a persone come Violante che nell'attaccare Andreotti hanno intenso falsificare la storia, perché le collusioni di Andreotti con la mafia e con i mafiosi, che ci sono, erano sicuramente in termini diversi da quelli che sono stati poi portati in un processo farsa con cui si è solo celebrato Andreotti e lo si è reso immortale per la politica italiana.

falcone borsellino

Torniamo a via D'Amelio. Anche in questo caso fu incaricato di indagare sulla strage e fu lei a scoprire che il telefono della madre di Borsellino era stato intercettato, abusivamente, del resto era l'unico modo per capire quando il giudice si sarebbe recato a trovarla.
Sì, questo è un elemento di partenza, come lo sono una serie di dati che riguardano i contatti telefonici di Borsellino, quello che Borsellino stava facendo, perché quello che ancora qualcuno non vuole capire è che quella strage deve essere cercata in quel che Borsellino stava facendo in quel momento, in quello che si voleva impedire che Borsellino facesse. E' inutile andare a cercare sulla Luna o su Marte le causali di una strage. Una persona viene uccisa in quel modo e con quella accelerazione che viene dimostrata, sono elementi incontrovertibili.

E in quel contesto io mi opposi decisamente a dei "farlocchi" che stavano entrando nell'indagine. C'è una mia lettera del 7 Dicembre ‘92 al Questore di Palermo Matteo Cinque, questore insufficiente pure nel cognome, che è la cartina tornasole di come in effetti io denunciai, sin da allora, quelli che erano stati gli errori d'impostazione in un sistema che voleva solo creare a tutti i costi dei colpevoli per addebitare solo alla mafia quella strage. E questo avviene dopo la decodifica di quel databank di Falcone che io avevo eseguito qualche settimana prima. E quando tornai con la decodifica e trovai i contatti di Falcone con uomini della politica, il viaggio negli Stati Uniti e altri elementi nel databank cancellato, fui trasferito.

cuffaro

Da che dirigevo due uffici fui trasferito al Reparto Mobile e il mio incarico più importante fu quello di andare a fare ordine pubblico allo stadio la domenica pomeriggio. Questo per dire quello che è stato lo Stato di quel Ministro dell'Interno, che si chiama Nicola Mancino, che decapitò la Squadra Mobile trasferendo La Barbera e costrinse i magistrati di Caltanisetta alla creazione del famoso gruppo d'indagine "Falcone-Borsellino". Salvo poi la piega che prese La Barbera, con la promessa di diventare questore. Abortì tutto basandosi su Scarantino.

Parliamo del monte che sovrasta Palermo e in particolare via d'Amelio, il monte Pellegrino, secondo lei è proprio da lì che partì l'impulso che azionò l'autobomba?
Questo non l'ho mai detto. Il castello Utveggio era un'ipotesi di lavoro. Una cosa è certa: l'impulso è partito da chi aveva la perfetta visione del luogo della strage. Quindi bisogna cercare un luogo distante da Via D'Amelio, perché se fosse stato in Via D'Amelio sarebbe stato travolto dall'esplosione, da cui è stato azionato il congegno. Quella era un'ipotesi di lavoro come tante. In quel castello, comunque, c'erano molti amici di Contrada e dell'alto Commissariato per la lotta alla mafia.

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Ci sono dei contatti telefonici di persone che sono state condannate con sentenza definitiva per quelle stragi, mi riferisco a Scotto, ci sono dei contatti con un altro boss di Bagheria, Scaduto, che chiamava il castello di Utveggio, che doveva essere un centro per eccellenze e mi pare che costoro non erano certo delle eccellenze.

Se lor signori mi spiegano il perché di queste chiamate, mi spiegano cosa facessero quelle persone là, e spiegano perché quando sono iniziate le indagini queste persone sono scappate, se ne sono andate e hanno chiuso questa struttura, probabilmente è un punto di partenza per mettere la parola fine a questa vicenda, a questa storiella del castello Utveggio.

Quello che è certo è che in quella strage ci sono dei mandanti esterni, ci sono esecutori esterni che non hanno niente a che vedere con Cosa Nostra. I pentiti hanno detto qualcosa su tanti delitti eccetto due: la strage di Via D'Amelio e l'omicidio Agostino, insieme a quello di Emanuele Piazza. Tutto si riconnette a due episodi: l'attentato dell'Addaura e l'attentato di Via D'Amelio.

E' lì che casca l'asino, in quel 1989 in cui molti di quei signori, che in questo momento sono ai vertici della Polizia di Stato e dei Servizi di Sicurezza, probabilmente dovrebbero chiarire meglio qualche cosetta, di qualche mese precedente a quella strage. Ma questa è materia che vedremo e spero di campare per avere il tempo di poter vedere tutto questo film fino alla fine.

NICOLA MANCINO E MOGLIE

Parliamo degli attentati del '93 (Roma, Milano e Firenze).
Sono l'escalation della strategia stragista. Strategia stragista a cui Riina non vuole aderire perché si rende conto dell'errore che ha fatto con Via D'Amelio. Riina che viene catturato nel gennaio del 1993 a cui segue la mancata perquisizione del covo, le mancate indagini, a cui segue quel Di Maggio che viene creato a posta per far catturare Riina e per poi portare al processo Andreotti. La polpetta avvelenata del famoso bacio con Riina, a cui solo i magistrati di Palermo hanno potuto credere. Andreotti, probabilmente non ha mai baciato nemmeno sua moglie, non c'è nessuna foto di Andreotti che bacia una persona, immaginiamoci se andava a baciarsi con Toto Riina.

Toto Riina che per altro era quella persona che insieme ai corleonesi gli aveva ammazzato i suoi amici. Dopo l'omicidio Bontade, dopo l'omicidio Inzerillo, dopo la strage di Viale Lazio, gli amici di Andreotti in Sicilia, mi riferisco ai fratelli Salvo, scapparono e si fecero la macchina blindata. Quindi questo già ci dimostra come si tratta di due contingentamenti completamente diversi, quello che ha fatto Andreotti contro Riina e contro la mafia, quello che hanno fatti i governi presieduti da Andreotti, con Scotti di cui ho appena finito di parlare, non l'ha fatto nessuno.

Quindi andare a ipotizzare un concorso di Andreotti con quei mafiosi è un assurdo. E quindi è lì che bisogna andare a indagare nel fare i processi a Mori o alle altre cose. Cosa è accaduto con Di Maggio. Perché è tutto lì il problema, però siccome c'è qualcos'altro che è accaduto con Di Maggio, con il ritorno di Di Maggio a San Giuseppe Jato, e probabilmente di ritorni a Palermo ce ne sono due che si sono annullati: uno è il ritorno di Contorno nell'89 e l'altro è il ritorno di Di Maggio alcuni anni dopo. E hanno fatto il pareggio e purtroppo con il pareggio, uno a uno, non si è potuto assegnare la vittoria a nessuno, e nemmeno la sconfitta.

Secondo lei ci fu una trattativa tra lo Stato e la mafia?
C'è sempre stata una trattativa tra lo Stato e la mafia. Io non sono un mafiologo. Possiamo partire da Notarbartolo, possiamo partire dall'omicidio dell'investigatore americano a Piazza Marino, Joe Petrosino, possiamo partire dal Prefetto Mori. Perché il Fascismo, affermandosi come dittatura, non consentiva che potessero esistere altri poteri oltre se stesso. Poi però Mori viene cacciato dalla Sicilia e fatto senatore quando tocca la mafia che si era fatta regime.

ANDREOTTI

Oggi una nuova mafia avanza, mentre un'altra mafia viene apparentemente sconfitta da uno Stato che celebra delle vittorie per celebrare se stesso, rinforzando altri referenti mafiosi che si dimostrano sempre più pericolosi, più cattivi e senza meno scrupoli dei precedenti che vengono sconfitti.

Fu lei a segnalare alla procura di Palermo il traffico telefonico di un cellulare, che era in uso a Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, cosa c'era in quei tabulati?
C'erano e ci sono degli elementi importanti che consentono di capire e riscontrare sotto certi profili e sotto certi altri di ridimensionare le dichiarazioni di un soggetto che non doveva essere considerato un mito, un dio, un santo, ma che era il figlio di un criminale che era Don Vito Ciancimino.

Nei mie tabulati, che io feci acquisire alla Procura di Palermo moltissimi anni fa, ci sono dei riscontri ineguagliabili sui contatti di Ciancimino con apparati dello Stato, con la Presidenza della Consiglio, col Ministero dell'Interno, con apparati giudiziari in circostanze precise che riguardano anche la vicenda giudiziaria di suo padre: la storia del passaporto, i suoi rapporti con le istituzioni di cui poi ha riferito. Io sono dell'avviso che mai bisogna sposare i pentiti, uno i fidanzamenti li deve fare fuori dall'ambito dei pentitismi.

Nel suo libro, tra le tante cose che racconta, c'è un passaggio importante di quando indagò sulle stragi del '92 al fianco di Arnaldo La Barbera. Furono le ultime indagini che lei ha compiuto da funzionario di Polizia. Cosa accadde? Eravate a un passo dalla verità o qualcuno vi fermò? Perché lei, in una notte molto agitata, abbandonò quegli uffici, abbandonò quella vita, per fare la vita che fa ora, il consulente dell'autorità giudiziaria.
Con La Barbera c'era un rapporto di amicizia, non c'era solo un rapporto professionale. Abbiamo quasi convissuto per cinque anni della mia vita, che sono stati anni difficili, travagliati. Ho pagato un prezzo personale, io e la mia famiglia, per quello che è stato l'impegno professionale al fianco di La Barbera, per far fare carriera, guarda caso, a tutti quelli che oggi sono ai vertici della Polizia e che hanno fatto carriera a Palermo e sui morti di Palermo.

Don Vito e Massimo Ciancimino

E quando capii che La Barbera aveva ceduto all'invito di appiattire quell'indagine su Via D'Amelio sui soliti mafiosi, come il pentito "farlocco" Scarantino, quando capii sostanzialmente di essere stato tradito da La Barbera sbattei la porta e andai via. C'è una lettera che uscirà, e sarà pubblicata, che i due magistrati titolari dell'indagine, Ilda Boccassini e Fausto Cardella, scrivono, è una riservata, al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta su quella vicenda. E quella lettera è fortunatamente la mia assicurazione sulla vita, perché dimostra qual è stata la correttezza del mio operato.

E per tutto questo ci sono voluti diciotto anni, per accertare tutto questo. E quando è stato accertato la risposta della Polizia di Stato e di Manganelli è stata quella di destituirmi. Probabilmente gli è stato utile quello che gli ha chiesto Berlusconi, ma non penso che sia stato solo Berlusconi l'autore della mia destituzione dal servizio della Polizia.

 


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