Gigi Riva per "l'Espresso" in edicola domani
Nagel e PelliccioliSarebbe bene, dice Tarak Ben Ammar, che Diego Della Valle si comprasse il "Corriere della Sera": un elemento di chiarezza. E sarebbe altrettanto bene se il mondo degli affari e quello della politica restassero ben separati, senza invasioni di campo, come da perenne anomalia italiana. Ma pensa che né «Diego», né «Luca» (Montezemolo) siano tentati di scendere in campo. Come fece, a suo tempo, quello che considera «più di un amico, un familiare», cioè Silvio Berlusconi. Ma non è anche lui un imprenditore che ha fatto un partito? «Sì ma è diverso...». E in questa intervista con "l'Espresso" spiega il perché.
Tarak Ben Ammar, 61 anni, è al centro, in questa fase, di tutte le partite più importanti che investono il riassetto del nostro capitalismo e non solo. Consigliere del premier sul Nord Africa, mediatore con le autorità di Tunisi del precario accordo sull'immigrazione come a suo tempo lo fu per la chiusura del contenzioso con la Libia. Siede nel Consiglio di Mediobanca e in quello di Telecom. Uomo dai poliedrici interessi e dalla diffusa influenza. Qui parla di Bolloré e di Geronzi. Di piazzetta Cuccia e del Leone di Trieste. Partendo però, da un biglietto da visita che vuole rettificare. Tarak Ben Ammar, finanziere franco-tunisino, vicino a Silvio Berlusconi.
Tarak Ben Ammar«Preciso. Ho preso la cittadinanza francese quando sono dovuto andare in esilio dal mio Paese perché, per via di madre, mi spettava. Ma mi sento assai più italiano che francese. Non sono mai stato un finanziere, semmai sono un produttore cinematografico. Quanto a Berlusconi non rinnego l'amicizia, anzi, ma non sono mai stato il suo rappresentante dentro Mediobanca. Una menzogna che viene ripetuta da sette anni e che è diventata a lungo andare una verità».
Lei come pezza d'appoggio per la sua autonomia ripete in questi giorni che Berlusconi si è arrabbiato perché nessuno lo ha avvertito della defenestrazione di Geronzi.
«Esatto. Che ci si creda o no, in sette anni non ho mai parlato con lui di quello che si decide in Mediobanca o in Telecom».
Forse di Geronzi non sapeva nemmeno lei.
«Errato. Lo sapevo la sera prima. E lo sapeva anche Geronzi. E se facessi parte della squadra di Berlusconi, come si pretende, avrei avvertito il capoallenatore, o no? Invece niente».
Sapevate, la sera prima, che anche il vicepresidente di Generali Alberto Nagel avrebbe firmato la lettera contro Geronzi?
«Si trattava di sacrificare Geronzi e salvare Bolloré. Nagel non poteva andare contro lo schieramento che si era formato dopo che si era rotto il rapporto di fiducia col presidente. E Nagel ha protetto Bolloré. Non dimentichiamo che era Bolloré nel mirino, gli intimavano di chiedere scusa e di mettersi da parte perché non aveva firmato il bilancio (sul quale, tra l'altro, leggo dai giornali, ha avuto qualche dubbio anche l'Isvap, l'organismo di controllo sulle assicurazioni). Geronzi a quel punto ha capito che era meglio uscire con eleganza. Cosa che ha fatto. E gli hanno pure detto grazie».
Come?
«Con gli svariati milioni di euro che ha avuto per buonuscita. È stato come il capro espiatorio biblico. Sacrificato per il superiore interesse delle Generali».
Generali garantisce un ritorno dell'investimento meno interessante delle società concorrenti in Europa. E Geronzi ha nuociuto alle performance di tutte le aziende in cui è stato. Lo documenta l'economista Alessandro Penati.
«Lo dice Penati ma questa non è né la mia opinione né quella di Mediobanca che lo aveva nominato presidente delle Generali».
Lei, con Bolloré, ha cercato di difenderlo fino all'ultimo. Tanto che a un certo punto è sembrato uno dei tanti derby Italia-Francia.
«Raccontata così sembra Disneyland, sembra una fiction. Io sono per la difesa dell'italianità di certe aziende, ma in un modo intelligente. L'ho dimostrato in Mediobanca, in Telecom. E sono per la reciprocità. Ricordo quando gli americani stavano per comprarsi la Danone, gli yogurt, e in Francia sembrava stessero rubando la Tour Eiffel. Il problema è che il capitalismo italiano è più debole di quello francese e si strumentalizza questo argomento. Certi italiani cittadini del mondo lo usano per questioni che sono invece italo-italiane».
Sta pensando a Diego Della Valle con cui tra l'altro si è scontrato?
«Non mi sono scontrato. Non mi è piaciuto quando ha sparato sull'età di alcune persone, quando ha attaccato i vecchietti. Che c'entra? La mia Tunisia la stanno salvando due ottantenni. Più che il giovanilismo contano le capacità o no? Una delle società televisive dove sono azionista, la Lux Vide, ha come presidente Ettore Bernabei che ha 90 anni. E che testa ha!».
Non sarà che dietro tutto questo la vera sfida sia sulla Rcs, sul "Corriere della Sera"?
«Io penso che Diego dovrebbe comprarsi il "Corriere della Sera". Sarebbe un elemento di chiarezza. Il problema adesso non è l'intervento di Tizio o di Caio che forse non si azzardano nemmeno a chiamare il direttore o il giornalista per esercitare una pressione. Ma, con tanti soggetti nell'azionariato, c'è un'influenza indiretta e fastidiosa. Non si capisce bene quale sia la linea del giornale. Mentre è interesse della democrazia che ci sia trasparenza e che un grande giornale esprima una linea chiara anche se di parte. Succede per la Fiat con "la Stampa", succede per De Benedetti con "Repubblica". Sarebbe meglio succedesse anche col "Corriere"».
E succederà secondo lei?
«Difficile mettere tutti d'accordo, ma sarebbe auspicabile. Oltretutto Diego, che rispetto perché è un uomo onesto, adora la comunicazione, il protagonismo mediatico».
E vorrebbe magari entrare in politica così come Luca Cordero di Montezemolo?
«Diego non credo, da come lo conosco e dal suo stile di vita. Ama troppo la sua libertà, le sue aziende. Anche la posizione di Luca mi sembra abbastanza chiaramente espressa».
Lei sostiene di non apprezzare la commistione tra imprenditoria e politica. Quella che chiama la "zona grigia" italiana. E dunque consiglierebbe loro di non farlo?
«Chi sono io per dare dei consigli? Io sono lo straniero di troppo, un arabo in Mediobanca. In assoluto però sì, meglio che imprenditoria e politica restino separate».
Una evidente contraddizione con quello che ha fatto il suo amico Silvio Berlusconi.
«Ma è diverso. Erano altri tempi. Lo ha detto lo stesso Berlusconi. Era crollato un mondo, erano stati azzerati tutti i suoi referenti politici. Si è trattato di lotta per la sopravvivenza. Se la sinistra si fosse presa tutto, se Occhetto lo voleva distruggere e la prospettiva era di finire in galera, ha fatto bene a entrare in politica».
Non le sembra una rappresentazione un po' caricaturale di quella che comunque, bene o male, è una democrazia occidentale?
«Forse sì, ma nessuno ha una risposta su come sarebbe potuta andare. Tutti, io compreso, avevamo cercato di dissuaderlo ma Silvio ha fatto di testa sua. Per tornare all'origine della domanda per Della Valle o per Montezemolo non si tratterebbe di lotta per la sopravvivenza...».
Col senno di poi consiglierebbe ancora a Berlusconi di non entrare in politica?
«Ha dimostrato di avere una marcia in più, spesso. Come nel caso dell'accordo con la Libia di Gheddafi. Ha avuto il coraggio di chiedere scusa per gli errori del colonialismo, cosa che la Francia, ad esempio, non si è mai sognata. Mi ricordo quando andammo a Bengasi e Silvio aveva il discorso retorico che gli avevano preparato. Gli consigliai di buttarlo e di parlare col cuore. Lo fece. Aveva davanti il figlio in carrozzella di Omar al-Mukhtar, l'eroe libico ammazzato dal generale Graziani, e andò ad abbracciarlo. Gheddafi a quel punto rinunciò al suo di discorso antitialiano e si mise a elogiare la patria di Cavour e Garibaldi. Ho visto i libici piangere. Un momento indimenticabile».
La cronaca ci racconta anche altro di Berlusconi. Dal bunga bunga in giù. Lei che gli è così vicino non si è mai sentito di dargli dei consigli, di correggere certe rotte?
«La nostra è un'amicizia vera. Dunque gli dico tutto quello che penso senza timore di infrangere un solido legame. Un rapporto di verità che non è offuscato da nessun freno».
E che gli ha detto in questi frangenti per lui difficili?
«Cose che non racconto certo a un giornale».
Per tornare al rapporto tra imprenditoria e politica ci sarebbe sempre, poi, la mai risolta questione del conflitto di interessi.
«Il conflitto di interessi non deve essere una legge ma un'etica personale. Io sono amico di Berlusconi ma non l'ho mai informato di cosa succede in Telecom, Mediobanca o Generali, nonostante si dica che io sono solo la voce del padrone. Credo, in assoluto, che in Italia ci vorrebbe più trasparenza, anche nel mondo finanziario e che la si finisse di pensare che c'è sempre un complotto. Basta vedere come sono state interpretate le ultime vicende».
E come sono state interpretate?
«Come se si trattasse di un film. Arcore ha perso perché ha perso Geronzi e adesso arriva la cavalleria con alla testa Diego Della Valle che caccerà i francesi o anche gli arabi. E siccome Geronzi è amico di Letta, ha perso Letta e ha vinto Tremonti. Quando le cose sono molto più semplici. Generali rappresenta la metà degli utili di Mediobanca. Io sto nel consiglio di Mediobanca e sono interessato che Generali faccia utili e mi comporto di conseguenza».
Lei è contento della nomina di Gabriele Galateri per Generali?
«Certo, è un uomo che rispetto. Lo abbiamo voluto noi in Telecom quando nessuno ci credeva. L'uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto. E serve per rasserenare il clima rovente che si era determinato. Ora si può guardare avanti».
Fuori Geronzi, finisce l'era dei banchieri di sistema.
«Ma io non l'ho mai considerato tale».
Chi sarà, adesso, il giudice di ultima istanza della finanza italiana? Palenzona? Bazoli? Nagel?
«Io credo sia finita l'epoca dei giudici di ultima istanza. Il mondo è cambiato dall'epoca di Cuccia. Adesso il mercato è globale. In Mediobanca c'è un equilibrio molto sano. Non ci sono guerre. Certo non tutti la pensiamo alla stessa maniera, ma è come nei divorzi. Magari non ci si ama più ma ci sono i figli e si intrattiene una relazione comunque civile nel loro interesse. Pur con diverse sensibilità, l'interesse di tutti è quello di creare ricchezza».