Stefania Rossini per "l'Espresso"
Giovanni Scanavino
Il vescovo che ha conquistato Orvieto brandendo il Vangelo se ne è andato a meditare nel ritiro di Cascia. Resterà lì il tempo necessario a capire dove ha sbagliato, come sia potuto accadere che tutto quell'amore cristiano, quelle parole di misericordia, quel soccorso ai deboli che era convinto di aver dedicato alla sua diocesi siano diventate micidiali accuse contro di lui, fino a indurre il Vaticano a chiedere le sue dimissioni.
La sera prima di partire, con indubbio senso dello spettacolo, ha indossato il suo vecchio saio da frate agostiniano per accogliere la fiaccolata di saluto della cittadinanza che da settimane si era mobilitata a suo favore sotto la guida di Toni Concina, primo sindaco di destra di Orvieto, con il sostegno della stampa locale, con appelli pubblici delle scrittrici Susanna Tamaro e Rosa Matteucci, e anche con un'insistente campagna de "Il Foglio" di Giuliano Ferrara che è tornato a riflettere sull'inclinazione umana al peccato.
Nella piazza del Duomo gremita come uno stadio l'ormai ex vescovo Giovanni Scanavino non è tornato a spiegare i dettagli della sua vicenda, culminata nel suicidio del suo segretario particolare a cui era stato vietato il sacerdozio per sospetti di omosessualità. Ha fatto però la sua ultima predica, di quelle che per sette anni hanno strappato il cuore agli orvietani, producendo conversioni improvvise e risuscitando movimenti spiritualisti e radicali.
Dicono che lei sia un predicatore irresistibile. È vero?
«Senza presunzione, devo ammettere che me la cavo bene. San Paolo diceva che la fede passa attraverso l'ascolto e io mi accorgo subito quando la gente è catalizzata, pronta all'evangelizzazione. È come se avesse fame e sete di qualcosa di solido».
In un'epoca in cui l'immagine è tutto e domina la devozione a un leader, non si è mai interrogato su questo suo potere?
«Ogni giorno ho pregato per capire se volevo imporre la mia immagine o invece trasmettere valori forti che aiutassero la gente a maturare».
Questo travaglio vale per lei, non per chi corre ad ascoltarla.
«È vero, ma io mi sono sempre regolato come Sant'Agostino, che pianse quando lo vollero fare vescovo perché sapeva quale responsabilità si assumeva. Lui diceva ai fedeli: "Attenzione, se mi applaudite semplicemente perché sono un retore, andremo tutti all'inferno, io e voi". Nel mio piccolo anch'io ho cercato di trasmettere contenuti forti».
Ce ne dica qualcuno.
«Gliene dico uno, per me fondamentale. Ha presente la parabola del figliol prodigo? Ebbene, io la chiamerei invece "la parabola del padre buono", colui che aspetta il ritorno del figlio, non gli rimprovera nulla e fa vincere l'amore. Non si unì a loro il fratello maggiore offeso, ma a lui oggi dovremmo puntare».
Perché?
«Perché nella teologia della Grazia, il perdono vince sempre. Ci sono anche gli esempi di Matteo, della Maddalena, persone squalificate moralmente che ritrovano la dignità incontrando Gesù. O capiamo questo oppure rischiamo di creare due chiese: la chiesa del padre che accoglie il figliol prodigo e la chiesa del fratello maggiore che sa puntare soltanto il dito accusatore».
Attraverso le parabole siamo arrivati alla questione che la esilia da Orvieto. Anche lei ha raccolto uomini squalificati. Anzi, come dicono i suoi accusatori, se ne è circondato.
«I delatori o gli spioni, per usare un gergo popolare, non sanno quello che riferiscono. Il mio criterio è accogliere la persona, ascoltarla, vivere con lei e capire se c'è davvero qualcosa che non va. Se non dimostri che quello è un delinquente, non lo puoi condannare sulle voci. Alla fine mi hanno fatto capire che ho sbagliato ma, per favore, non pretendano che cambi le mie idee. Sempre Sant'Agostino mi ha insegnato che non si può vivere soltanto con la grazia, senza il peccato».
Però uno dei suoi diaconi, Luca Seidita, che non è stato accettato come prete per presunta omosessualità, si è suicidato gettandosi dalla rupe di Orvieto.
«Quella vicenda tristissima è stata usata per colpire un intero lavoro pastorale. Io non ho avuto le certezze di chi si è voluto basare su vaghe impressioni. Forse Luca era fragile, d'accordo, ma io non butto via un uomo per questo».
C'erano altri diaconi problematici, e anche un prete accusato di abuso su un minore.
«È bene che si sappia che in questa diocesi c'è Colle Valenza, una comunità dove opera un'équipe specializzata voluta dalla Conferenza episcopale per recuperare i preti in difficoltà. Se questa équipe mi segnala il caso di un sacerdote, a suo tempo condannato, che ha fatto il carcere e poi anni di riabilitazione, io ho il dovere di aiutarlo a reinserirsi come prete, anche se con tutta la prudenza possibile».
Invece...
«Invece qualcuno avverte il cardinale che prende il telefono e chiede: "Ma è vero?". Rispondo: "Sì, è vero, ma è tutto sotto controllo, Colle Valenza l'avete voluta voi". Dopo un mese il sacerdote è stato ridotto allo stato laicale».
Non pensa che su questo tema il Vaticano paghi lo scotto dei troppi scandali?
«Il papa ha fatto benissimo a insistere su questa piaga. Ma io gradirei che fosse posta più attenzione alle persone coinvolte, caso per caso, per arrendersi solo quando è sicuro che sono irrecuperabili. Se si vuole davvero la tolleranza zero, allora bisognerebbe cominciare da quello che accade nei seminari minori».
Che cosa vi accade?
«Le dico soltanto che io e i miei confratelli, alla fine del nostro percorso, ci siamo detti: "Siamo arrivati ad essere preti nonostante i seminari"».
Lei è così controcorrente anche su altri temi osteggiati dalla chiesa? Che cosa pensa, ad esempio, di una legge che regoli le convivenze gay?
«Io mi preoccupo soltanto quando queste due persone cominciano a dire che vogliono adottare un bambino. Su questioni così serie va riproposto il valore della natura, per la quale la famiglia è composta da un uomo, una donna e dei figli».
Ma la cultura incide sulla natura, monsignore, altrimenti non avremmo la civiltà.
«È questo il motivo per cui è necessario dialogare, capire il mutamento, convincere. Il cardinal Martini diceva che era giunto il momento di aggiornarci, rivedendo il concilio Vaticano II. Ma in questo momento tutto ciò per la chiesa è out».
Le dimissioni di un vescovo restano comunque un fatto straordinario. Lei deve averli davvero spaventati.
«Sì, ma non solo per le scelte vocazionali. Hanno avuto paura che mandassi la diocesi alla deriva anche per alcune scelte economiche».
Quali?
«Volevo fare della cattedrale una sede eucaristica, visto che abbiamo qui nientemeno che il miracolo del Corpus Domini. Sarebbe stata anche una grande occasione di rilancio per l'economia della città. Ma l'idea non è piaciuta. Volevo poi affittare uno stabile di nostra proprietà al Gordon College, un'istituzione americana che lo avrebbe ristrutturato come sede per gli stage italiani dei propri studenti. Ma in quel caso è stata la pastora a spaventare».
La pastora?
«Si tratta di anglicani e il sacerdote che li guida è donna».
È favorevole anche al sacerdozio femminile?
«Finora per noi ha vinto la tradizione. Però dico: accogliamo gli anglicani, sono fratelli nostri, guardiamo come funziona da loro una donna. Potrebbe aiutarci a capire se sarebbe praticabile anche nella nostra chiesa».
È ancora molto arrabbiato, vero?
«Sono colpito dal cancro che consuma la chiesa: la mancanza di amore. Gli uomini di chiesa non si amano tra loro e questa ostilità si riversa sulla gente. Il mio peccato è stato quello di cercare il contatto diretto con le persone. Ne ho tratto grande soddisfazione ma ho suscitato la gelosia dei baciapile».
Che ne sarà di lei ora?
«Me ne starò per un po' in convento. Voglio ripensare a quanto è successo per aiutare la nostra gente, il clero, a non tornare indietro».