Fabiana Giacomotti per "il Foglio"

"La verità non detta, mai detta, è che la droga è un piacere. Un piacere devastante, che satura, annullandoli, tutti gli altri". Ogni altra valutazione, ogni altra spiegazione sulle ragioni che spingono alla dipendenza è dunque "giustificatoria, assolutoria", osserva Umberto Galimberti, e sono le 9 del mattino sul Freccia Argento Milano-Venezia. Una mattina che il filosofo degli "Equivoci dell'anima", come da best seller del 2005, sta spendendo nel pendolarismo consueto verso Cà Foscari, e consueta nell'iperattivismo di chi preferisce indirizzare forze ed energie verso un obiettivo chiaro, da perseguire con lucidità.

Lo scambio di idee, che ci si promette reciprocamente breve in virtù dell'iperattivismo appunto, si concentra sul nuovo film di Francesco Antonio Castaldo, "Il sesso aggiunto", storia di un'autoanalisi senza concessioni, di una inestinguibile sete d'amore nonché volonteroso campanello d'allarme sociale sulla strabiliante rimonta dell'eroina nella classifica atroce delle droghe maggiormente assunte dai giovani.
Unico stupefacente che desse l'impressione di essere caduto nell'oblio della memoria e dei sensi e che invece, a leggere gli ultimi dati e a sentire lo stesso Castaldo, due figli adolescenti seguiti in ogni espressione dell'anima, a scanso di equivoci, starebbe riprendendo piede fra i ventenni, con tassi di crescita da progressione geometrica, a causa di condizioni di mercato particolarmente favorevoli: buona qualità, eccellente reperibilità, prezzo contenuto. Verrebbe da dire un prezzo da promozione, non fosse che usare la terminologia del marketing per un prodotto di morte fa doppiamente orrore.

Con Galimberti prima, e con Castaldo poi, si divaga attorno a una di quelle domande che, bazzicando tutti moda e letteratura di continuo e spesso con modi e tempi trasversali, si finisce inevitabilmente per porsi, e cioè quanto la dipendenza da stupefacenti, come molte altre espressioni della tendenza umana a cercare nuove forme di espressione e nuovi luoghi per sperimentarle, sia soggetta a propria volta alle tendenze della moda.

Non la moda in senso strettamente vestimentario, sebbene sia facile trovare una correlazione, e sia stato in effetti sempre fatto, fra le allucinazioni da uso di Lsd e i colori acidi in versione tiedye della seconda metà anni Sessanta (tuttora, per darsi un tono, le giornaliste di moda definiscono "lisergico" anche un giallo canarino visto su una passerella in versione gonna a pieghe), ma quella moda che nasce dalla condivisione di ideali estetici o di percorsi sociali e che talvolta si nutre anche di abbigliamento.

Castaldo, che nel suo "Il sesso aggiunto" ha offerto al protagonista Giuseppe Zeno la prima occasione di fare vero cinema della sua vita, mostrandone tutta la bravura, parla di eroina come di "un lavoro a tempo pieno, un impiego che costa tempo e denaro e che porta via il senso del pudore, la capacità di giudizio, l'orgoglio, sostituendo il sesso e persino gli affetti senza dare nulla in cambio", legando stupefacenti e moda degli stessi a una disponibilità di mercato, a un'offerta allettante per sovrabbondanza o scarsa riprovazione sociale (che è, o sarebbe, il caso della cocaina, il paradiso artificiale dei professionisti e dei workaholic, appunto, i cui effetti, pur letali e devastanti, non sono esteticamente visibili e dunque più facilmente accettabili in una società malata di immagine).

Eppure, non ci sono dubbi che, pur promosso da una disponibilità di materia pura a prezzi da commodity, l'ideale di seduzione malaticcia, emaciata della seconda metà degli anni Novanta sia stato sostenuto e promosso dalla moda grazie a un'espressione da cui adesso si prendono le distanze con imbarazzo: heroin chic. Una nichilistica visione della bellezza lanciata da una campagna di Calvin Klein in cui Kate Moss compariva in canottierina e culottes nere tese sulle osse iliache a vista e tramontata con la morte per overdose del fotografo par excellence del submovimento, Davide Sorrenti.
Fra inizio e fine, una congerie di espressioni culturali e cinematografiche pop i cui si alternavano l'eroina, non più stupefacente da sfigati marginali ma sniffata per tipi cool, si accompagnava alle t-shirt a righe di "Trainspotting" o alle camicie in seta bianca di "Pulp Fiction".

Di quegli anni ricordo una litigata epica con Terry Richardson per un servizio di lingerie in cui le modelle, le occhiaie profonde un dito, i capelli arruffati e uno sboccio di seno affiorante fra le costole, sembravano sopravvissute a uno stupro di gruppo (d'accordo, non si sarebbe dovuto ingaggiare un esteta della sessualità morbosa come Richardson per un servizio di lingerie, ma la responsabilità finale della scelta non toccava a me. Lo sgomento sì, però).

Quando, proprio al volgere del millennio, Vogue America decise arrivato il momento di cambiare registro e riservò la copertina a una dea come Gisele Bündchen decretando il "ritorno della supermodella sexy", l'estetica heroin chic era così radicata nell'immaginario mondiale da occuparvi una posizione di rilievo persino adesso, in piena tendenza della forma piena, e finendo per dare vita e slancio a fenomeni scomposti di recupero a scopi autopromozionali di una stampa in cerca di un ruolo che superi la rappresentazione dell'ultima gonna a pieghe giallo canarino.
In realtà, droga e moda, nel suo significato originario di modus, modo, erano concetti apparentabili anche nel secolo precedente, e non si sta parlando della Nico che cantava di droghe dure e perversioni sessuali con i Velvet Underground nella Factory di Andy Warhol, né delle scorribande notturne di Yves Saint Laurent in decappottabile sotto l'effetto di sostanze varie e composite delle notti glitterate di paillettes, hashish e cocaina dello Studio 54, quando Halston, il genio della moda nordamericana, raccontava di trasferimenti diretti dalle passerelle al centro Betty Ford, ma delle femmes fatales dell'immaginario tardo Ottocento-primi Novecento.

Tutte all'apparenza uscite dal pennello di Gustave Moreau e vestite di velluti moiré o di sete in tinte cupe, mangiatrici di uomini e di diamanti, anche quando, come una delle protagoniste del "Puro e l'impuro" di Colette, intrattengono il loro giovanissimo amante scaldando l'acqua per la pipa ad oppio nello stesso cappottino verde bon ton con cui faranno ritorno a casa, dal marito.

Poi, certamente, oppio ed eroina non sono sempre eroici né promesse di eroismi, secondo quanto ricorda anche Galimberti evocando come Thomas De Quincey, immaginetta della discesa agli inferi e ritorno da due secoli, sebbene nessuno legga più le sue "Confessioni di un oppiomane", avesse iniziato ad assumere laudano ancora negli anni di studio al Worcester College di Oxford a causa di dolori articolari alla mascella e non per acutizzare nelle visioni extrasensoriali la propria creatività, così com'è noto che Arthur Rimbaud fosse passato dall'assenzio degli anni gloriosi con Paul Verlaine all'oppio degli ultimi anni per lenire gli atroci dolori provocati dall'amputazione della gamba e non per immaginare altri battelli ubriachi, avendo peraltro smesso da tempo di scrivere poesie per dedicarsi a traffici molteplici e non del tutto onorevoli.
Forse davvero "poco consci degli effetti dell'uso degli stupefacenti", come sostiene ancora il filosofo milanese, in buona parte sedotti dall'opportunità di un'esperienza alternativa, certamente trasgressiva, su cui costruire il proprio personaggio e una carriera attutendo alternativamente i morsi della fame e i pensieri pratici del fitto, decine di scrittori e di poeti, da Charles Baudelaire, il dandy in guanti rosa, a Raoul Ponchon, popolarissimo cantore delle virtù della Fata verde, l'assenzio, hanno però legato la propria fama all'uso di so- stanze stupefacenti, ammantandole di un'aura nobile in quanto - presumibilmente - creativa.

Il dubbio che una relazione di dipendenza esistesse fra estro e uso di droghe se l'era posto già il poeta romantico per eccellenza della letteratura inglese, il Samuel Taylor Coleridge della "Ballata del marinaio" che in effetti offre una sequenza impressionante di immagini allucinate, senza però darsi una risposta convincente (solo Elémire Zolla, un secolo dopo, ebbe a dire che certi momenti della letteratura sono spiegabili solo attraverso il ricorso a una sostanza dopante).
Che poi il tragitto verso i paradisi artificiali partisse spesso da un grande appartamento sui boulevards, nel caso stigma della buonissima nascita di Baudelaire, così come nel "Sesso aggiunto" è l'ambiente soffocante di una famiglia piccolo borghese con sogni di grandeur l'humus su cui Alan coltiva le proprie frustrazioni, è solo un'aggravante. Il sentimento comune che accoglie con pietà i bimbi tossici delle favelas, storditi di colle, tende a scomparire di fronte al ragazzo bennato che consuma i propri giorni fra il letto e la ricerca della dose.

Baudelaire, lo zerbinotto coi revers di velluto che presto si sarebbe definito un "consumatore ideale" di stupefacenti, "un temperamento per metà nervoso e per metà atrabiliare" aveva scoperto l'hashish a poco più di vent'anni non fumandolo né grattugiandolo sul risotto, come avrebbe fatto la cricca di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida negli anni Trenta per animare le notti romane e come fanno tutt'oggi certi ménage della prima cerchia dei Navigli ma gustandolo col cucchiaino, in marmellata, nelle stanze confortevoli di Louis Ménard, ex compagno al liceo Louis le Grand e futuro poeta parnassiano.

La ricetta di questo impasto ideale per intaccare irreversibilmente le gengive e l'arco dentale è pubblicata, come si sa, nel saggio del 1860 "I paradisi artificiali": "La più usata di queste confetture, il dawamesk, è un mélange di estratti grassi, di zuccheri e di aromi diversi, come la vaniglia, la cannella, pistacchi, mandorle, muschio" (nel senso di muschio di zibetto, base per essenze estratto dalla secrezione perianale del piccolo viverride africano).
Baudelaire usava aggiungervi un cucchiaino di cantaride per preservare una potenza sessuale che l'hashish tende invece ad inibire, mescolando quindi il tutto a una tazza di caffè forte: i soli risultati tangibili della sua prima esperienza di tossicodipendente fai da te furono una poderosa colica e un autoritratto in piedi con un Charles più alto della colonna Vendôme, ma non si può negare che il prosieguo della sua opera letteraria, così come delle mode che lanciava dal rifugio sull'Île Saint-Louis dove occasionalmente si faceva ospitare, sia stato decisamente più interessante.
Così interessante, anzi, da attirare fin da subito nel palazzo Pimodan "okkupato" e gestito da una sorta di cocchiere del paese dei balocchi, il pittore Boissard de Boisdenier, una folla di appassionati e di ammiratori, tanto da inviperire i vicini per gli schiamazzi di quei rave ante litteram, a cui assisteva anche un infermiere per evitare che qualcuno, fra i più solerti nello studio degli effetti della droga sul cervello, che era la giustificazione per ogni festino, si buttasse dalla finestra.
Uno dei primi ad accorrere, ufficialmente per trarne un reportage da pubblicare sulla Revue des deux mondes, in realtà perché curioso, era stato Théophile Gautier. Aveva partecipato a un rave da Boisdenier proprio in quell'anno, il 1860, e la sua cronaca, apparsa sotto il titolo "Il Club degli hashichins" è un capolavoro di ipocrisia godereccia:

"Quelli che mi avevano visto uscire di casa all'ora in cui i comuni mortali si nutrono non avrebbero potuto immaginare che stessi recandomi all'isola Saint-Louis, luogo patriarcale e virtuoso se mai ce ne sono stati, per consumare il piatto strano che serviva, secoli fa, da strumento di eccitazione a uno sceicco impostore per spingere gente perbene all'assassinio, nei miei abiti perfettamente borghesi.
[...] Avevo più l'aria del nipote che va a trovare la vecchia zia di quella dell'adepto pronto a godere delle gioie del cielo di Mohamed in compagnia di dodici arabe di pura estrazione francese". Gautier era venuto, aveva visto e con ogni probabilità anche vinto, ma non abbastanza da chiudersi in un silenzio goduto e soddisfatto, e infatti, anche nella sua prefazione ai "Fleurs du mal", avrebbe raccontato come non solo lui, ma lo stesso Baudelaire, avessero più volte assistito ai party dell'hotel Pimodan "come semplici osservatori".
Balzac, con la grossa testa e il corpo massiccio di un torello aveva fumato, parecchio, senza provare altro che un leggero mal di testa, c'era rimasto malissimo ma ne aveva tratto comunque motivo di vanto con una delle sue corrispondenti amorose, madame Hanska: "In tutta evidenza possiedo un cervello così potente da richiedere altro che una dose normale di hashish. Comunque - puntualizzava, incerto fra l'ironia e la volontà di uniformarsi al pensiero comune, borghese anche nella trasgressione - ho udito voci celesti e ho visto pitture divine".
Sibille, indovini, lettori di interiora d'animale, visionari o poeti, ognuno con il suo piccolo conforto di cannabis in saccoccia anche perché poi, vai a vedere, da un secolo all'altro, da una comunità all'altra, da un sistema economico all'altro, prodotti e sostanze stupefacenti si trasformano da lecite a proibitissime, da curative a mortali.

Ben prima che Patrick Mc Grath lo assolvesse narrativamente nel suo "Morbo di Haggard", l'etere è stato il rifugio consolatorio dei medici di campagna senza che nessuno avesse da ridire, e di codeina contro le tossi squassanti si sono salvati i bronchi di decine di migliaia di bambini negli anni Sessanta, tanto che si sarebbe forse dovuto valutare con occhi diversi persino Morgan quando, l'anno scorso, ammise di ricorrere alla cocaina come antidepressivo.
Un errore colossale, certo, magari "una trappola per escludermi da Sanremo", come provò a giustificarsi, naturalmente peggiorando la propria situazione, nei giorni successivi, ma la storia, ancor prima della moda diffusa della "pista" a partire dai primi anni Ottanta dell'efficientismo assoluto e a prescindere, narra in effetti di un suo utilizzo massiccio nelle terapie antidepressive a cavallo del XX secolo.
I media, quando ne parlano, seguono lo stesso principio: un fatto di cronaca clamoroso, una breve ricerca statistico-economica, ed ecco che una sostanza sconosciuta, o una sua derivazione di sintesi, diventano per un lasso di tempo più o meno lungo "la" droga di riferimento, il termine di paragone.
Eppure, per costruirvi attorno un immaginario, punti e volti di riferimento, i dati di consumo, le immagini di notti d'estasi e di ragazzini in sballo non bastano: persino l'ecstasy ha bisogno di un Irvine Welsh per essere raccontata, per prendere vita e dare morte.