1- FRANCIA PADRONA: M'AMA O NON GROUPAMA? GROUPAMA!
Giuseppe Milano per "il Riformista"

La conquista di Parmalat da parte dei francesi di Lactalis è di fatto in archivio, anche se ancora sul terreno ci sono dei quesiti che attendono una risposta. Il primo, e più importante, è perché mai la Cdp dovrebbe investire in una società ormai saldamente e irreversibilmente in mano francese. Di fatto l'acquisto di una quota di minoranza in Parmalat dopo l'Opa transalpina avrebbe il solo vantaggio di diminuire l'indebitamento dei francesi, e nulla più.
Ma l'equilibrio Francia Italia, che comprende anche (e soprattutto) l'endorsement di Sarkozy alla nomina di Mario Draghi a presidente della Bce, avrà delle ricadute su molte altre partite italiane che vedono coinvolti interessi francesi. La più rilevante, in ambito finanziario, riguarda il posizionamento di Groupama nello scacchiere finanziario italiano.

La compagnia assicurativa francese, che è socia sindacata di Mediobanca e che da tempo ambisce ad acquisire un pezzo consistente della galassia Ligresti, potrebbe avere un inatteso alleato nel Governatore di Bankitalia, e in particolare nella sua ambizione di succedere a Jean-Claude Trichet avendo prima messo abbondantemente in sicurezza il panorama bancario italiano.
È importante porre attenzione alle date. Il mandato di Trichet scade a fine ottobre, mentre fine settembre è il termine ultimo per la disdetta del patto di sindacato di Mediobanca. I due eventi sembrano apparentemente scollegati ma non lo sono.

Tra i soci di Piazzetta Cuccia sono da tempo iniziati i sondaggi informali per il rinnovo del patto. Non è un mistero che i dioscuri di Piazzetta Cuccia, Renato Pagliaro e Alberto Nagel, desidererebbero un corposo sfoltimento dell'accordo, che oggi vincola oltre il 44,5 per cento del capitale e che loro ambirebbero (nei loro sogni più sfrenati) di portare al 30 per cento. Ambizione che finora non ha trovato sponde nei soci tutti, o quasi, pronti alla conferma.
Rispetto al recente passato c'è da registrare l'ambizione di Unicredit di giocare un ruolo di primo Piano a Piazzetta Cuccia. Unicredit si trova in una situazione peculiare. Pur essendo una banca sistemica finora non ha ritenuto di dovere procedere a un aumento di capitale, visto che i suoi coefficienti di patrimonializzazione sono comunque in linea con quanto chiesto dagli accordi di Basilea III. Non è un mistero che Draghi chieda che le banche italiane stiano comode nei nuovi parametri, e quindi che abbiano dei coefficienti vicini al 10 per cento.

Secondo alcuni analisti, affinché la banca guidata da Federico Ghizzoni possa raggiungere il massimo degli standard servirebbero fino a 8,5 miliardi di euro. Considerata la moral suasion esercitata sulle banche affinché si affrettassero a mettere in cantiere gli aumenti, richiamo raccolto da Ubi, Monte Paschi e Intesa Sanpaolo spontaneamente (o quasi) e da Bpm in maniera più coartata, molti osservatori finanziari sono pronti a scommettere che il pressing su Unicredit da qui a ottobre siano destinate a crescere.
Tanto più che Unicredit ha una penetrazione europea che renderebbe la ricapitalizzazione una scelta non peregrina. Se Unicredit dovesse chiedere al mercato, e facilmente anche alla Cdp, un esborso tanto ingente, potrebbe essere costretta a riconsiderare alcune operazioni strategiche come il supporto alla ristrutturazione della galassia Ligresti. Ai francesi di Groupama è stato chiesto di fare un passo indietro dal patto di Mediobanca, dove controllano il 5 per cento. Uscita che, tra l'altro, favorirebbe le ansie di influenza da parte di Unicredit.

Al momento non ne hanno intenzione. La prospettiva potrebbe cambiare se il sistema finanziario italiano consentisse loro di accaparrarsi un pezzo dell'impero Ligresti. E forse non è un caso che ieri, nell'assemblea di Milano Assicurazioni, controllata da FonSai, Emanuele Erbetta abbia prospettato l'eventualità di una fusione fra le due compagnie, che suona tanto come una mossa difensiva.
2- PARMALAT CE N'EST QU'UN DÉBUT
Colloquio con Jean-Paul Fitoussi di Luca Piana, Espresso in edicola domani
Jean-Paul Fitoussi, 68 anni, è una delle persone più qualificate per analizzare gli sviluppi del derby Francia-Italia. Professore emerito all'Istituto di Studi Politici di Parigi, cavaliere della Légion d'Honneur, consigliere del governo francese, ricopre da tempo diversi incarichi di prestigio anche in Italia. Insegna alla Luiss di Roma, è consigliere d'amministrazione di Telecom Italia e membro del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo.
Le calorose strette di mano fra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy andate in scena al vertice di martedì 26 aprile, tuttavia, non lo convincono granché. «Di questi tempi, per gli ottimisti di natura come me, l'Europa non riserva buone notizie», dice l'economista, puntando il dito contro uno dei risultati dell'incontro: la richiesta congiunta di rivedere gli accordi di Schengen, quelli che permettono di circolare liberamente all'interno dell'Unione europea, senza controlli alle frontiere. Accolta come una tregua fra Roma e Parigi dopo settimane di tensioni e presentata come una misura per frenare l'afflusso di immigrati dal Nord Africa, la richiesta per Fitoussi è «un errore».

Perché la modifica degli accordi sulla libera circolazione sarebbe sbagliata?
«In primo luogo mi domando che cosa resterebbe della tanto attesa "Europa dei popoli" se venisse meno la possibilità di spostarsi liberamente da un Paese all'altro. E poi una revisione degli accordi sbatterebbe in faccia la nostra sfiducia a quegli immigrati che oggi arrivano soprattutto dalla Tunisia, dove hanno fatto una rivoluzione che da noi nessuno si aspettava, laica e senza violenza. Ora hanno bisogno di aiuto».

A chi governa l'immigrazione fa paura.
«Riflette la mancanza di una visione di lungo termine sul fatto che nel mondo arabo le democrazie possono vincere, portando all'Europa spazi di crescita economica. È vero che le rivoluzioni sono fragili ma è altrettanto vero che la fiducia e la simpatia da parte dell'Europa aiuterebbero a ridurre l'incertezza sugli esiti positivi di questo processo».
È stato detto: l'Italia si tiene gli immigrati e ottiene in cambio il sostegno francese per la presidenza della Bce.
«Non posso entrare nella testa dei politici. Ma credo che il sostegno di Sarkozy alla candidatura di Draghi sia sincero. Con la recessione abbiamo tutti toccato con mano quanto la politica monetaria sia troppo importante per essere lasciata ai tatticismi politici. La Bce ha bisogno di essere guidata da persone competenti e con una vera visione europea».

Che cosa gioca a favore di Draghi?
«La sua serietà, il suo pragmatismo. Alla Banca d'Italia e al Financial Stability Board ha mostrato di non credere in mercati che si auto-regolano ma che, al contrario, servono normative prudenziali elaborate e messe in atto dagli Stati. Per questo dico che Draghi ha dimostrato di non essere un dottrinario. Va riconosciuto a Sarkozy di aver sempre sostenuto la necessità di una politica monetaria pragmatica, anche prima che questo principio si affermasse con la giusta reazione della Bce alla crisi economica».
Forse al presidente francese non spiace troppo che a Francoforte non vada un falco della politica monetaria. E teme di più un candidato tedesco.
«La Germania un candidato forte l'aveva, l'attuale presidente della Bundesbank, Axel Weber, che è certamente considerato fautore di una politica monetaria molto rigida. Ma Weber si è tirato fuori dai giochi».

Tornando al derby Italia-Francia, Berlusconi ha giudicato «non ostile» la scalata di Lactalis a Parmalat.
«Non aveva molta scelta: se uno non può vincere, è meglio far buon viso a cattivo gioco. Credo che abbiano pesato due fattori: la fatica di far nascere una cordata italiana e la difficoltà di sostenere l'interesse strategico di un produttore di latte».
Cosa che ha fatto proprio la Francia con la Danone, quando era finita nel mirino della Pepsi Cola e della Kraft.
«Con una differenza, però: in quel caso non si arrivò mai alla formalizzazione di una vera e propria Offerta pubblica d'acquisto, che sarebbe stato più difficile evitare».
Quindi Danone è stata protetta dal fatto di essere un boccone più grande da digerire rispetto a Parmalat.
«In parte sì. Attenzione però: la normativa europea che impedisce interventi di Stato a protezione della proprietà delle imprese è difficile da superare. Infatti quando il produttore siderurgico Arcelor è stato acquistato dall'indiana Mittal, il governo avrebbe voluto intromettersi, anche perché l'acciaio è certamente più strategico degli yogurt. Ma non c'è stato nulla da fare».

L'ok di Berlusconi all'acquisto di Parmalat stride con il provvedimento ideato dal ministro Giulio Tremonti per difendere l'italianità delle imprese.
«Dal suo punto di vista, Tremonti fa bene a rendere più difficili le scalate. Non ha altra scelta per conservare la proprietà di aziende che, una volta acquistate, finiranno per dirottare all'estero una parte degli utili che realizzano in Italia. Gli strumenti per intervenire però non sono molti, perché le normative comunitarie sono chiare: è più un gioco d'influenza, una partita di poker che il potere politico può tentare di giocare con gli acquirenti stranieri».

La questione è stringente: dopo Parmalat, si apriranno i casi Alitalia e Edison.
«Le regole europee non danno scampo, altre imprese finiranno oltre-confine. Il problema però è più ampio: non si può reagire alle difficoltà tornando al nazionalismo economico. Lo choc della recessione e dei posti di lavoro che sono stati perduti ha riproposto in tutta Europa un problema che sottolineo da tempo: se i singoli Stati non possono avere una politica industriale perché le norme europee in favore della concorrenza e della libera circolazione dei capitali lo impediscono, tocca all'Unione europea dotarsi di strumenti per mettere in atto una politica industriale comunitaria. Per assorbire meglio i colpi e, magari, per investire in settori dove la ricerca è cruciale, come ad esempio l'energia e l'ambiente. Per farlo, però, serve una maggiore unità politica, non un ritorno del nazionalismo economico».

Qui si gioca l'ultimo tempo del derby. E Sarkozy sembra vincere ancora: Berlusconi ha detto che lo stop alle centrali nucleari è un escamotage per evitare un referendum. E che l'Italia darà seguito agli accordi, acquistando le tecnologie francesi.
«Non sono così sicuro che nuove centrali verranno davvero costruite. Le nuove regole sulla sicurezza faranno crescere i costi sempre più. Non dico che non ci sia un futuro per l'energia atomica: è importante però che eventuali investimenti vengano fatti mettendo sul tavolo tutte le carte. E in in particolare quali saranno i costi sostenuti per garantire la sicurezza. Vedremo a quel punto se le nuove centrali saranno davvero convenienti».