Malcom Pagani per "l'Espresso"
I fili del sipario sono liane sull'Africa di Paolo Conte. Un giardino contaminato da rumbe, gauchos e milonghe che lo hanno scortato, recitando e inventando, al confine dei 73 anni. Teatro Valli, Reggio Emilia. Architetture lontane, orchestrali in pausa, sigarette. Trenta minuti e va in scena la memoria. Fuori biciclette, fontane e tricolori al vento. Dentro, dietro le rughe di Paolo l'enigmista, commedie, finzione, olfatto e nasi tristi.
vnz09 paolo conteSe annusa il messaggio politico, Conte si eclissa: "L'attualità non ha odore". Così chiedergli dei francesi che si incazzano o delle guerre che pure depreca, è tendergli un agguato della cronaca. Conte è amico di Gino Strada. Ricorda la ritirata dei tedeschi nel '45: "Io e mio fratello Giorgio osservammo un fiume di soldati in rotta nella notte" e il tedio della leva.
Il militare Conte Paolo la soffrì a Sud del Sud. "Rimpiansi il Nord, dopo aver sempre pensato che la nostalgia procedesse in senso contrario". Conosce le rotte ma non può segnarle. Non vuole. Non l'ha mai fatto. Rifiuta le analogie, i parallelismi, la pallida divisa dell'intellettuale di complemento. Per illudersi di capire vita e morte, meglio l'arte della tessera: "Dettare manifesti o preferenze approfittando della notorietà non mi ha mai appassionato". Provi allora a lambire la Libia con la calda Tripoli da lui disegnata per Patty Pravo nel 1969 e ti accorgi che è inutile.
vnz08 paolo conteChe "il primo nome che viene in mente" era un'astrazione anche allora. Il solito inganno senza appigli. L'incantesimo sublime. Francia-Italia, comunque, non è la sua partita. A Parigi, Conte è una religione. Medaglie, cittadinanze onorarie, omaggi, anche un film, in arrivo per "Artè". Qualcuno li avrà pure presentati, ma poi, tra gli arrondissement, si è trattato d'amore. Annie Girardot, la Nadia dei fratelli viscontiani di Rocco, se n'è andata al tramonto di febbraio.
Nel barocco di Saint Roch, con Lelouch, Delon e la voce di Paolo nell'aria. L'aveva preteso nel testamento e ascoltato per la prima volta all'Olympia, il tempio dei silenziosi ventagli di Duke Ellington, in cui tra Brel, Aznavour e Trenet, Conte respira felice vecchi paradisi. Anche in questi giorni di vecchi fantasmi, sciovinismo e reciproco ringhiare, Conte è un'eccezione assoluta al tavolo del rancore. Gheddafi è soltanto l'ospite inatteso, prima di un dopo e dopo di un prima. "I francesi mantengono verso di noi serie ragioni di diffidenza che risalgono a un'altra guerra", si sforza, "nella nostra bonomia vera o falsa, noi italiani siamo più fatalisti, disillusi e poveri di noi stessi".
Paolo ConteDove "poveri" potrebbe significare aridi o più probabilmente no. Tutto qui. Poco, forse troppo. Echi di Pessoa, Kavafis, Emily Dickinson. Alle banalità già ascoltate, preferisce le suggestioni perdute. "I pezzi di pane bianco nel porto di Genova dopo la Liberazione". O i palloni inseguiti con le ginocchia rosse sui prati: "Mi dica cosa c'è di più bello al mondo?", nel paesaggio precario in cui un temporale abbatteva "sei case su dieci". Il passato è l'anagramma quasi perfetto di felicità: "Tra la casa di mio zio e l'ufficio postale, c'era posto per lo stadio di Wembley". Lo sventolare contento dietro a bambine bionde, mentolo, aranciate e stracci del bar. Svelare il rebus senza la collaborazione di Conte equivale ad arrendersi alla musica. Lui è gentile. Accoglie tutti.
Sorride alla tribù di cui si fida. Dame che imbiancate con lui, ne conoscono vizi, accordi e biografia, manager complici, anonimi conoscenti. Incoraggia i dilettanti: "Mi mandi pure il disco", affida agli editori la sua opera: "A patto che io faccia il meno possibile", congeda l'interlocutore occasionale con un bacio, perché timidezza e incandescente desiderio di fuga, non deludano l'educazione. Controluce tutto il tempo se ne va e Conte, che pigro è sempre stato, è stanco di perderlo.
Paolo ConteNella scala delle afflizioni, l'intervista è il più stretto degli stivaletti malesi. Smorfie, accelerazioni, risposte smarrite in paludi monosillabiche che maschera con guizzo letterario: "Forse le sembreranno un po' tacitiane". Ha la stessa faccia in prestito di quando a 40 anni, emigrò dai tribunali piemontesi per acquerellare l'immaginario con finestrini, bionde e silenzi volgari come sputi. Faceva l'avvocato. "Mi laureai in armonica, ricercata solitudine. Senza celebrazioni. Toccata e fuga" e oggi, qualche milione di dischi più tardi, traffica da poeta, tra premi letterari, capi di Stato, agognati eremitaggi nell'astigiano e concerti.
Suona ancora dal vivo - non più di 15 volte l'anno - e resta l'italiano di un altro secolo che si è musicalmente espresso meglio sul Novecento. Ha descritto tinelli e lustrascarpe, balere e treni, uomini scimmia, diavoli rossi, calciatori, puttane, cravatte e parate per soli uomini. Persuaso che "sognare sia meglio di viaggiare", ha immaginato stelle uruguaiane "senza mai essere stato in Sudamerica" e guardato in faccia Shanghai da una campagna abbaiante. Soffre le assenze prolungate: "Per questo, forse, sono un pessimo turista" e anela l'eterno ritorno al fieno, ai cani da pagliaio, all'infanzia. Conte il semplice, ha edificato nel tempo complesse dialettiche.
Paolo ConteLa decadenza della realtà, scrutata dal suo angolo, è un'arguta osservazione semiologica: "Tutto è iniziato alle mostre di pittura. Quando fin dagli anni Cinquanta, si cominciò a definire un quadro non più bello ma interessante", valutata però nel solco di una conclamata estraneità. Giudicare è opprimente come essere giudicati. L'uomo che non voleva interpretare i suoi brani e inciampava nell'imbarazzo: "Al primo concerto rovesciai sul pubblico la bottiglia dimenticata sul pianoforte", con l'oggi non c'entra. È diventato maestro nuotando controvento. È rimasto nell'anima convinto che non necessariamente "l'arte sia nei musei". Delle mode, se ne frega.
Parla "difficile come fa l'Europa quando piove", in francese, inglese, napoletano, esperanto. Accumula acritico, tardivo consenso e stanche etichette: "Mi incasellano in provincia senza intuire che un italiano provinciale è una cosa mondiale". Superficialità che Conte ribalta con lampi d'ironia: "Chiedere a un compositore cosa pensi dei critici è come volere che un lampione si esprima su un cane".
Paolo ConteLegge poco: "Cose brevi. Gli occhi si affaticano. Pavese, Piero Chiara, l'esilarante maggiordomo di Wodehouse, i porti di Giorgio Seferis, Flaiano" e non dorme quindi "con un libro di Lucrezio aperto tra le dita" perché dal bar Mocambo, giura, l'autobiografia è bandìta. Se "appartiene alla razza triste", sostiene, è solo perché la sua generazione ha raggiunto la relativa serenità con un esorcismo: "Ci siamo salvati dalla tristezza coltivando ogni giorno un piccolo giardino di malinconia". Quando a tradimento, gli domandi se l'anagrafe non sia una fregatura, rimane arcano, come gli amanti delle sue ballate: "Sì e no". Da tre decenni, Conte convive con Egle, algebrica e pensosa, conosciuta nel '75, tra una causa e un ricorso.
Le ha dedicato "Un gelato al limon": "La più madrigalista delle mie tante canzoni d'amore", che De Gregori convertì al rock in "Banana Republic". "Lo incontrammo a Roma per caso. Iniziò a sbracciarsi e a chiedere perdono dall'altro lato di piazza del Popolo. Si scusava, senza intuire l'onore e il piacere che mi aveva fatto".
Per Egle, Conte duellò di calembour con Benigni al Premio Tenco organizzato da Amilcare Rambaldi. Vecchia via del varietà, vino, amicizie, notti e albe nello stesso scompartimento. L'attore rapì il pubblico. Brano tematico ("Mi piace la moglie di Paolo Conte") e parole "d'umore" scritte a macchina: "E mentre Conte canta/a lei mi siedo accanto/e vinto dall'incanto/perdo il conto".
Paolo ConteLui piega la guancia, tormenta la barba, concede: "Era l'81. Un bel ricordo. Quando toccò a me fui lesto: dedico il mio brano alla zia di Benigni, di cui sono perdutamente invaghito". Fino a tre anni fa, con Egle e Paolo, c'era anche Nelson. Il nerissimo cane cui Conte - per dire di certe licenze della senescenza - ha dedicato l'ultimo disco. Il figlio del notaio che comprava gli Lp americani al mercato nero e accompagnava il padre con le pentole nella libera Repubblica musicale di casa, non ha eredi. È ed è stato un pezzo raro, come anche i colleghi, vanamente protesi all'imitazione, gli riconoscono. Resterà unico.
Paolo ConteL'aveva profetizzato lui stesso parafrasando Flaiano: "Si nasce e si muore soli, ma in mezzo c'è un bel traffico". "Dissi così e mi pare che la frase conservi integro un suo profumo". Gli anni emigrano, se n'è andato l'agente-fratello Renzo Fantini: "Un gran signore" e non ancheggia neanche più Jannacci pronto ad assolvere, almeno una volta, al giuramento di Ippocrate. "Ci incontrammo in tournèe. Avevo bisogno di un'iniezione e non c'era uno straccio di medico. Me la fece Enzo tra i camion, all'aperto, con mano talmente leggera che non sono neanche sicuro sia successo davvero".
Con il pubblico non dialoga più. "Clownerie", inchini, cenni d'intesa. Parole, zero. Lo adorano, anche afasico. Non c'è dolo, ma anche se nella scelta albergassero ombre routinier, non lo ammetterebbe: "È solo una questione di ritmo dello spettacolo". E di meritata, reversibile anarchia. Se riscrive i classici, lascia come sempre, massimo spazio all'interpretazione.
"Non può esistere un'unica, obbligata lettura. La canzone non è una macchina. Non le serve la chiave inglese". All'epoca di Azzurro: "Composta d'inverno, pensando all'estate e a Celentano", convinse personalmente Adriano a inciderla. Tre giorni di assedio, il nastro in bocca, l'Aurelia b24 sulla Milano-Torino e l'abbraccio materno. Lei l'ascoltò, di notte, in cucina. "E pianse lacrime che sapevano al tempo stesso di passato e di futuro".
Oggi che il Baobab è una metafora di longevità da alternare a cieli color cavallo, anime magre, sguardi torbidi e abissi di tiepidità, compiacere o peggio snaturarsi è l'ultima delle sue aspirazioni. Lo ratifica con una battuta, serissima e fulminante. "Il pubblico è in smoking, io in canottiera". Il legale che non usa telefonino e contesta la tecnocrazia senza più logica: "Un'epidemia che annienta le differenze", stenta a considerare l'autoindulgenza una categoria dello spirito. "Appena nati, i miei dischi non mi piacciono. Poi alla distanza recupero".
Paolo ConteCosì meglio scherzare con l'altrove: "Un pudore del teatro quotidiano, una maniera per nascondersi, un alibi novecentista" e continuare a indagare ispirazioni senza traguardi: "Di ritmi miei ne ho già trovati tanti, ma ne cerco ancora". Irridendo chi lo taccia di misantropìa: "Non le pare troppo?" O lo dipinge misogino per via di antiche incomprensioni sul jazz: "Mi vien da ridere, ho sempre venerato le donne, noi le chiamavamo "baby"". Siccome la nèmesi non rispetta nessuno, un bagno sardo dello scorso millennio fu sufficiente per ritrovarsi, adamitico, sulla prima pagina di "Novella 2000". "È accaduto, ma io sono un tipo sportivo".
Ride, saluta, fuma. Serrati gli spartiti è già ora di ripartire. Affronta la notte in maglietta: "Un'eleganza raffinatissima, mi creda, che non ha a che fare col denaro" e preso per stanchezza, abbandona la trincea per definirsi: "Sono un grande compositore e un grande lavoratore, per niente diplomatico". Poi vola via. Un temporale prepara grandi gesti grigi. Serrande abbassate. Il suo clima.